giovedì 26 settembre 2013
A Roma il «Cortile dei giornalisti» ha visto confrontarsi i direttori dei grandi quotidiani sul dialogo fra credenti e non credenti alla luce delle parole di Francesco
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L’idea era quella di far vivere questo primo appuntamento del “Cortile dei giornalisti” al Tempio di Adriano di Roma (organizzato dal Pontificio Consiglio della cultura come il “Cortile dei gentili”) partendo dalla lettera di papa Francesco a Scalfari, per poi dibattere con i direttori dei quattro più importanti quotidiani nazionali sui temi della libertà e della responsabilità dell’informazione. In una seconda tavola rotonda, far poi confrontare i direttori di “Osservatore Romano”, Gian Maria Vian, e “Avvenire” Marco Tarquinio con colleghi della stampa nazionale e internazionale su «Giornalismo, la cultura e la fede». A tenere banco, com’era prevedibile, è stato soprattutto il confronto iniziale fra Eugenio Scalfari e il cardinale Gianfranco Ravasi. Un dialogo serrato e alto che ha guidato l’intero dibattito, conducendolo infine sul come l’intero mondo della stampa (”laica” e “cattolica”) si misura con le novità del modo di comunicare di papa Francesco. A dare il “la”, dicevamo, sono stati Ravasi e Scalfari lì dove hanno parlato dei nuovi media. In particolare, il cardinale ha sottolineato come in fondo papa Francesco si muova su schemi di comunicazione già adoperati nei Vangeli. Perché la comunicazione di Gesù duemila anni fa era fatta al contempo di “tweet” e di “sceneggiati” (come quelli tv). Per esempio «Il Regno di Dio è vicino, Convertitevi» conta in greco 45 battute compresi gli spazi e 39 caratteri sono quelli di «Rendete a Cesare quello che è di Cesare». Allo stesso tempo parabole complesse come «il Buon Samaritano» sono vere e proprie sceneggiature televisive. Infine, «nel Vangelo di Marco il 43% dello spazio dedicato al ministero pubblico di Gesù è fatto di un’intensa corporeità». Insomma, una sintesi di comunicazione contemporanea. Una comunicazione che su un buon giornale, ha sottolineato <+nero>Mario Calabresi<+tondo>, direttore della "Stampa", deve saper aiutare i lettori a collocare le notizie all’interno dei loro contesti «per far loro comprendere cos’è veramente importante». Del resto, «io non credo alla verità assoluta nell’informazione. Per questo è necessario evitare sensazionalismo e scandalismo per dare a ciascuna notizia il suo peso e la sua contestualizzazione». «Se i giornali hanno una colpa – ha annotato Ferruccio De Bortoli del “Corriere della Sera” – è che spesso abbiano dimenticato la centralità della persona. Allo stesso tempo per essere buoni giornalisti bisogna pensare di non essere esclusivi depositari della verità». Diversa l’impostazione di Ezio Mauro di “La Repubblica”, per il quale il compito dei giornali, a differenza di quanto accade su Internet «è la capacità di dare un senso al fiume quotidiano di notizie. Noi non crediamo che la verità venga dal cielo, per questo ai giornalisti serve stare nel cortile, essere impastati con la realtà». Questo però, secondo Roberto Napoletano direttore del “Sole 24Ore”, non vuol dire che la realtà debba essere separata dalla fede, anzi, «la ragione allarga il suo orizzonte con la fede, così come chi ha fede ha bisogno della ragione». E se Papa Francesco sembra avere rivoluzionato un certo tipo di comunicazione della gerarchia ecclesiastica alla quale eravamo abituati, ha detto Calabresi, è perché «ha compreso che la Chiesa non può avere gli stessi tempi dell’agenda politica e informativa... non può stare nella logica del botta e risposta con la politica». Di certo, ha precisato De Bortoli, «è finito il tempo della crociata ossessiva sui valori non negoziabili». Non crede, però che l’uso di twitter sia «consono» al ruolo del Papa. Mauro, invece, aiutandosi con citazioni evangeliche (canoniche e apocrife) ha spiegato che anche attraverso l’uso dei nuovi media questo Papa «mostra di avere rispetto per l’inquietudine del non credente... Siamo passati dalla Chiesa della condanna alla Chiesa della misericordia. Gli altri diventano essenziali e fra gli altri ci siamo noi». La successiva tavola rotonda, ha visto Marco Tarquinio mettere l’accento proprio su questa affermazione: «Non mi ritrovo in questo passaggio dal “tempo della condanna” al “tempo della misericordia”. Il primato della misericordia era ed è fuori discussione. Ciò che è davvero cambiato con questo Papa è lo sguardo rivoluzionato di chi guarda la Chiesa, che sembra sgombrato da una parte dei pregiudizi. Anche se non mi sembra che siano cambiati certi tic. A chi pensa, poi, che Papa Francesco “rinunci ai princìpi irrinunciabili” consiglio di guardare a come li vive il Papa, nella sua stessa carne. Il suo modo pastorale è tipico della Chiesa latinoamericana, quello di una Chiesa in cammino. Il depositum fidei non è affatto messo in discussione». «Non era mai successo – ha in questa logica sottolineato Gian Maria Vian – che un Papa venisse dal Nuovo Mondo, né che portasse un nome al di fuori della tradizione giudaico–cristiana. È un uomo che parla alla gente parlando di se stesso, della sua esperienza, come ha fatto a Cagliari quando ha parlato di lavoro partendo dalla sua famiglia emigrata in Argentina per necessità. Con i giovani ha parlato del giorno della sua vocazione. E quando uno mette in gioco se stesso la gente lo capisce». Un Papa, ha aggiunto il direttore del “Messaggero” Virman Cusenza, «capace di comunicare abbattendo le barriere». Un Papa che anche attraverso twitter, ha detto Vian, «è capace di stare nella piazza». Un Papa che, ha detto il presidente della Stampa Estera Tobias Piller, «comunica in modo geniale: riesce a far scrivere i giornalisti di tutto il mondo; ha rimesso la Chiesa in cammino riavvicinandola alla grande massa; vuole fare a meno di certi privilegi in sintonia con l’Italia degli anti-casta».
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