giovedì 3 novembre 2016
Al Festival di Tokyo ha riscosso grande attenzione il film “Rossetto sotto il mio burqa” che racconta la storia di “ribellione” di quattro donne oppresse.
L’India al femminile della Shrivastava
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Tra le pellicole presentate nelle diverse sezioni del 29° Festival internazionale del cinema di Tokyo, che si chiude oggi dopo dieci giorni di eventi, una ha attratto l’attenzione per le sue caratteristiche, ma anche per la curiosità attorno alla sua regista, l’indiana Alankrita Shrivastava. Molti l’attendevano alla seconda prova dopo l’eccellente debutto nel 2011 con Turning 30!!! (Diventare trentenni), vicenda di una pubblicitaria colpita da vicissitudini professionali e sentimentali all’approssimarsi di un compleanno che in Asia segna abitualmente per la donna il passaggio dall’età giovanile a quella adulta e per molte da una vita da single più meno convinta a quella di zitella con poche illusioni e poche eccezioni.


Ben diversa, insieme più attuale e più corale, la traccia di Lipstick Under My Burkha (Rossetto sotto il mio burqa), che ha al centro la ricerca di scampoli di libertà da parte di quattro donne indiane di età, estrazione sociale e fede diverse ma ugualmente insoddisfatte e infelici, unite da conoscenza e complicità reciproche. Presentato nella sezione Asian Future, la pellicola mostra con ironia ma anche drammaticità gli atti di ribellione, spesso piccoli, segreti, compiuti dalle donne oppresse da una tradizione di base induista che nei secoli ha fatto proprie anche tradizioni di segregazione islamica che si sono affermate tra gruppi esterni alla pur folta comunità musulmana.

Tra queste, una casalinga madre di tre figli e una studentessa di famiglia islamica costretta a indossare la copertura integrale, il burqa. Non una novità tra registe indiane, quella di dipingere una realtà al femminile che cerca di farsi strada per cercare parità di espressione e di diritti, ma sicuramente affrontata con piglio attento e caustico dalla Shrivastava.
«Sono convinta che uno sguardo femminile su vicende di donne sia importante. Ad esempio sullo svolgimento della trama, quali messaggi si vogliono dare e come la donna è rappresentata», ha dichiarato la giovane regista alla prima del suo film. «Nella cinematografia indiana più commerciale lo sguardo è soprattutto maschile e le donne sono spesso mercificate. Tutto è centrato su come la videocamera si muove sul corpo femminile. Manca la sensibilità per mostrare una vera donna con il suo spessore e quindi le donne sono rappresentate solo come idoli, vittime o eroi». Sovente con una predominanza di stereotipi. «Anche tra le registe, ve ne son alcune che inconsciamente perpetuano gli stereotipi sulle donne. La cosa importante è esaminare in profondità i punti di vista dei personaggi», indica Shrivastava.


“Alternativa” per vocazione, la regista, da 13 anni impegnata nell’industria cinematografica soprattutto come autrice, così spiega la sua scelta di sostituire alla famiglia e alla prole un lavoro («scelta non convenzionali per una donna nata in India») che contribuisca alla presa di coscienza delle connazionali e un loro diverso peso sociale: «Ho scelto di credere nei miei sogni nonostante la dura realtà che vedo attorno a me. A parte questo, ho una concreta empatia per le donne che trovano difficile perseguire ciò che più le realizza». Un messaggio insieme culturale e sociale. «Sento che l’intera società deve cambiare. Se la donna avrà il coraggio e la determinazione potrà fare molto, ma dovremmo evitare di giudicare le donne che non ne sono capaci», perché schiacciate dalla loro condizione.


Tra le problematiche che il film fa emergere chiaramente è il divario tra la realtà rurale e quella metropolitana, sottolineato anche dall’attrice Ahana Kumra, che interpreta Leela, tra le protagoniste del film quella che concretamente indossa il burqa del titolo, un abito che simbolicamente copre anche le speranze e le illusioni delle co-protagoniste non musulmane.


Come l’industria cinematografica indiana è concentrata soprattutto nei grandi studios (Bollywood) della capitale economica e finanziaria Mumbai (Bombay). Così il cinema abitualmente tende a rappresentare un’idea di emancipazione che è parte della realtà urbana ma sicuramente non condivisa da molte. «In una grande città, se ho un problema posso parlarne con un’amica, posso telefonarle oppure inviarle un messaggio in Facebook in ogni parte del mondo si trovi. Questo è possibile nei centri minori? Sono le loro donne libere di esprimervi apertamente i propri sentimenti? Possono davvero manifestare i propri desideri?».


Una emancipazione negata a una parte consistente delle donne, relegate nell’arretratezza e nella dipendenza da regole antiche, vietate dalla costituzione, perseguibili dalla legge ma persistenti. Una “metà del cielo” indiana senza voce per paura, per rassegnazione e per la difficoltà a farsi ascoltare anche dalle autorità a cui potrebbe rivolgersi. La cinematografia può essere la sua voce, data anche l’immensa popolarità. Occorrono però produttori coraggiosi come Prakash Jha e occorrono registi, come Alankrita Shrivastava, in grado di rendere problematiche pesanti spunti di uno spettacolo insieme attraente e educativo. «Sono sicura che questo film aiuterà a rafforzare le voci di cambiamento e accelerare il dibattito sulle problematiche femminili – ricorda Ahana Kumra –. Con la speranza che finalmente in India si apra un dibattito tra uomini e donne».

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