mercoledì 4 novembre 2009
La scomparsa a 101 anni del maggior antropologo del Novecento: figura «romantica» di viaggiatore, ma anche accademico che col suo metodo strutturale ha condizionato un’epoca.
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Avrebbe spento 101 candeline a fine mese e nell’ultimo anno il suo «secolo» così denso di sfide e traguardi intellettuali era stato sottolineato in Francia e nel mondo da celebrazioni di ogni tipo. Ma Claude Lévi-Strauss, di certo l’antropologo più noto e influente del XX secolo, è partito per il suo ultimo viaggio prima che la ruota degli anni ricominciasse a girare daccapo. Si è spento lo scorso fine settimana, però la notizia si è appresa solo ieri pomeriggio (dopo la celebrazione dei funerali in Borgogna in uno strettissimo riserbo).Malgrado le tante critiche rivolte negli ultimi decenni alla concezione strutturalista di archetipi e miti umani, molte opere di Lévi-Strauss vengono ancor oggi riconosciute come classici delle scienze umane; in particolare quelle che sfuggono allo stretto quadro accademico, come Tristi tropici (Il Saggiatore). Accanto all’opera è innegabile il fascino da sempre esercitato dall’uomo, il viaggiatore instancabile che ha condiviso per anni la vita dei nativi in Sudamerica. Quasi un prototipo, non solo in Francia, dell’intellettuale de terrain con lo zaino in spalla e il volto cosparso di sabbia o fango.Lévi-Strauss era nato nel 1908 a Bruxelles da genitori alsaziani di cultura ebraica versati per l’arte (il padre era pittore). Dopo brillanti studi di diritto e filosofia, una porta accademica si apre quando gli viene offerto un posto nella Missione universitaria francese in Brasile, in qualità di docente di sociologia all’Università di San Paolo. Sarà la svolta che deciderà un’intera vita. Dal 1935 al ’39, ancora giovanissimo, Lévi-Strauss avrà la possibilità di dirigere le prime missioni etnografiche nel Mato Grosso e in Amazzonia.È l’epoca delle prime traversate in territori ancora vergini. Con ogni mezzo: a piedi, in piroga, su carri trainati da buoi, a bordo di una Ford 34 laddove esistono percorsi sterrati. Ogni viaggio sarà un’occasione per raccogliere informazioni, fotografie e qualsiasi altro materiale sulle popolazioni di nativi, come i Nambikwara, i Mundé o ancora i Tupi Kawahib.Dopo la guerra, che passerà in gran parte a New York per sfuggire le persecuzioni naziste (in questo periodo stringerà amicizia anche con Jacques Maritain nel quadro dell’étEcole libre des hautes etudes, una struttura creata da accademici francesi in esilio), i lunghi anni di campagne etnografiche gli permetteranno nel 1949 di sostenere la propria tesi di dottorato su «Le strutture elementari della parentela». Nella sua apoditticità, il titolo ricorda Le forme elementari della vita religiosa di Emile Durkheim, classico per eccellenza della sociologia francese. Ed è già chiaro che il dottorando non tiene affatto a nascondere le proprie ambizioni.Le opere successive approfondiranno vieppiù il senso di quella nuova parola, «strutture», che Lévi-Strauss aveva in origine preso in prestito dalla linguistica. Antropologia strutturale esce nel 1958, mentre gli anni Sessanta saranno in gran parte dedicati allo studio dei miti arcaici, nel quadro di un ciclo coerente (Mitologiche) a cui appartiene in particolare Il crudo e il cotto (1964). Ma la fama internazionale di Lévi-Strauss poggiava già dal 1955 sul folgorante successo di Tristi tropici, opera ibrida alla frontiera fra autobiografia, testimonianza scientifica e meditazione filosofica. Diventerà subito un classico anche Il pensiero selvaggio (1962), considerato da molti come il lavoro più importante dell’antropologo.Il ricercatore avventuroso e assetato di sapere sarà col tempo affiancato dall’accademico influente, soprattutto dopo la carica assunta nel ’59 di professore al Collège de France, autentico olimpo universitario d’Oltralpe. Sarà Lévi-Strauss a creare i primi «laboratori» francesi di antropologia, arruolando un’intera generazione di ricercatori. Risale invece al ’73 l’ingresso fra gli «immortali» dell’Académie Française. Fra gli altri onori degli ultimi decenni, accanto alle tante lauree honoris causa (comprese quelle ad Harvard, Yale e Oxford), il privilegio di vedere in vita la propria opera omnia pubblicata nella prestigiosa collana della Pléiade di Gallimard.Tanta fama e tanti successi conoscono il rovescio nelle critiche talora feroci che vengono rivolte dal mondo scientifico all’«immobilismo» metodologico di Lévi-Strauss, soprattutto all’epoca in cui altri metodi antropologici (ad esempio quello interpretativo e simbolico impersonato dall’americano Clifford Geertz, accanto ad approcci del tutto originali come quello di René Girard) mettono in luce i limiti dello strutturalismo applicato alle scienze sociali. Persino certi allievi fra i più brillanti di Lévi-Strauss, come Philippe Descola (il successore al Collège de France), finiranno per scostarsi dal maestro. Ma ciò ha tolto poco o nulla all’aura da leggenda che il nome di Lévi-Strauss continuerà ad evocare certamente ancora a lungo.
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