venerdì 1 aprile 2016
Kertész, l’ultimo testimone
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Con Imre Kertész scompare una delle voci più autentiche e fortemente interroganti del Novecento, uno scrittore che ha affrontato il tema dell’Olocausto in un’ottica decisamente diversa, ponendo la sua terribile realtà non solo come sconfitta e tragedia del popolo ebreo, ma intuendola in senso più ampio come evento traumatico dell’intera civiltà occidentale. Kertész si è spento ieri all’età di 86 anni nella sua casa a Budapest dopo una «lunga malattia», come riferito dalla casa editrice Magvetö. È stato il primo scrittore ungherese a ricevere il premio Nobel per la letteratura, conferitogli nel 2002, «per una scrittura che sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia». Nato nel 1929 a Budapest in una famiglia ebrea, era stato deportato appena quindicenne ad Auschwitz e poi trasferito nel campo di Buchenwald. Sopravvissuto ai campi di concentramento, ha iniziato a scrivere prima come giornalista poi come romanziere. Il suo capolavoro Essere come destino ha avuto una lunga fase di preparazione, dal 1961 e al 1973, e se la pubblicazione in un primo momento, sotto il regime comunista ungherese, viene respinta. Il romanzo esce nel 1975, ma viene ignorato dal pubblico e l’autore messo al bando. Il libro, pur trovando materia espressiva nell’esperienza dello scrittore, non può essere definito autobiografico, ma allarga la sua prospettiva, attraverso la voce del narratore, l’adolescente György, alle vicende degli ebrei ungheresi durante la guerra mondiale che servono da spunto per una rigorosa riflessione filosofica sulle rotture della storia del Novecento.  Nel 1973, mentre sta arrivando in porto nella stesura del romanzo, sottolinea quanto «Auschwitz, e tutto quanto ha a che fare con esso (ma ormai che cosa non ha a che fare con esso?), è il più grande trauma dell’uomo europeo sin dalla croce, sebbene ci vorranno decenni e secoli perché ce ne rendiamo conto. Se non accadrà, allora tutto è inutile. Ma allora perché scrivere? E per chi?». Del resto questo è uno dei motivi che at- traversano, quasi ossessivamente, la sua opera, un concetto che via via lo scrittore allarga e chiarisce. Kertész sente viva e impellente la necessità non di raccontare una storia ma di trasformare l’esperienza dei campi di sterminio in esperienza umana, per avvicinarsi all’espropriazione della propria identità che è tratto specifico di ogni dittatura e con la consapevolezza che «dopo Auschwitz tutte le dittature celano al proprio interno la virtualità di Auschwitz». In Essere senza destino vibra una «strana felicità» che diventa ancor più evidente quando racconta il ritorno a casa e le richieste che riceve, da parte di chi incontra, di parlare degli orrori e dell’inferno che ha dovuto attraversare. György le disorienta dicendo che non si è accorto di quella barbarie, l’ha vissuta adattandosi ad ogni tappa, ad ogni cambiamento che era necessario. È stato costretto, suo malgrado, a una condizione alla quale ha dovuto piegarsi, trascinato da una velocità imposta da altri. Ha fatto i suoi passi, ha cercato di sopravvivere. Solo l’ostinazione e la fede nella vita lo hanno aiutato. Kertész ha continuato ad occuparsi di questo tema con altri due romanzi, che con Essere senza destino compongono una trilogia: Fiasco (1988) e Kaddish per un bambino mai nato (1989). Con la caduta del Muro di Berlino la sua opera e il suo talento vengono riconosciuti, soprattutto in Germania, dove lo scrittore decide di vivere per un certo periodo, mentre in patria viene sempre considerata ad un livello inferiore, per il solo fatto del suo essere ebreo. Poi avviene la riscoperta internazionale con i suoi libri che vengono accolti dal pubblico, con traduzioni e numerosi riconoscimenti, fino all’assegnazione del Nobel. Kertész è grande anche nei libri che accompagnano i suoi capolavori, come il Diario della galera (1992) o Dossier K (2009), libri di riflessione, di interrogazione filosofica o religiosa, in cui svela molto di sé, indica chiavi di lettura sui tragici destini novecenteschi, propone forme di interrogazione lucide e inquietanti. C’è ad esempio un racconto dedicato alle dittature, Verbale di polizia (1993), pubblicato in Il vessillo britannico, in cui Kertész racconta di un viaggio a Vienna, partenza da Budapest, che diventa una riflessione metafisica e kafkiana sul senso dell’estraneità e della vulnerabilità che le dittature hanno inferto sul suo corpo. Alla frontiera al protagonista viene infatti negato, per una banalità burocratica, la possibilità di proseguire. In questo incubo ferroviario emerge il senso di una sconfitta: «I regimi variegati e comunque monotoni di sei decenni e il loro sedimento dittatoriale hanno ridotto in briciole la mia immunità che si era nutrita di sopportazione: di una sopportazione immotivata». Del resto parlando di sé e della propria esistenza, sottolineava: «Vivo da fuggiasco. Solo da questo punto di vista vivo nel modo giusto: io “sono” un fuggiasco». E spiegava questa sua “assenza” non solo come risultanza dell’esperienza del lager, ma del complesso di “carcerazioni” che la sua esistenza ha dovuto subire. Una esistenza, raccontata nei libri, ma vissuta a livello umano, nel segno di un intenso senso religioso: «Il normale sentimento religioso è presente in me: per la vita, in fin dei conti, dobbiamo rendere grazie a qualcuno, persino nel caso che non esista nessuno che possa accogliere questi ringraziamenti». Così la sua opera si apre sempre alla speranza, anche quando la realtà è totalmente tragica. Per lui non era fondamentale e necessario «parlare di Dio», l’importante è che fosse intimo alla sua esistenza: «Arrivato ad un certo stadio, l’essere umano deve pensare Dio – o meglio deve riflettere su Dio –, e il risultato non è altro che una mera testimonianza, un documento umano, né più né meno».
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