venerdì 19 aprile 2019
Come altri autori del Novecento. anche il romanziere greco affronta la prova dell'apocrifo per interrogare più a fondo il cruciale racconto della Passione di Gesù Cristo
“Cristo crocefisso e il buon ladrone” di Tiziano Vecellio, Pinacoteca Nazionale  di Bologna

“Cristo crocefisso e il buon ladrone” di Tiziano Vecellio, Pinacoteca Nazionale di Bologna

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Non sempre la letteratura arriva per prima. Nella rappresentazione della Passione, per esempio, scultura e pittura sono in vantaggio di qualche secolo in termini di radicalità e visione, di profondità e coerenza teologica. Per trovare un corrispettivo di quello che nelle arti figurative accade dalla fine del Medioevo in poi (le Crocifissioni di Grünewald, il Cristo morto di Holbein il Giovane e quello di Mantegna, solo per ricordare alcune delle opere più celebri) bisogna attendere il XIX secolo, quando la Vita di Gesù di Renan da una parte e, dal-l’altra, la tormentata cristologia dei romanzi di Dostoevskij inducono gli scrittori a rielaborare il racconto evangelico in una prospettiva più problematica, non di rado controversa. Siamo alla radice degli “apocrifi moderni”, definizione suggerita da Giuseppe Lupo con particolare riferimento all’ambito italiano, nel quale si incontrano la Storia di Cristo di Papini e Il quinto evangelio di Pomilio, Né potere né gloria di Parazzoli e Volete andarvene anche voi? di Santucci, Il ladrone di Pasquale Festa Campanile e tanti altri. Ma anche all’estero il panorama è straordinariamente ricco. Tornano sulla vicenda di Gesù autori insospettabili come Jean-Paul Sartre ( Bariona, o il Figlio del Tuono) e Norman Mailer ( Il Vangelo secondo il Figlio), Anthony Burgess (il suo L’uomo di Nazareth nasce come soggetto per il Gesù di Nazareth di Zeffirelli) e il Nobel José Saramago, al quale si deve il corrosivo Il Vangelo secondo Gesù Cristo.

Ad accomunare i testi di questa costellazione non è soltanto il carattere provocatorio di molte soluzioni teologiconarrative, ma un altro aspetto, che rischia di essere poco avvertito. Anche quando possono sembrare irriverenti, gli apocrifi moderni non smettono di prendere sul serio la figura e l’insegnamento di Gesù. Magari per interpretarla in modo peculiare, non si discute. Eppure Cristo non smette di assillare gli scrittori che, per tutto il Novecento, hanno voluto misurarsi con Lui, tanto da farne l’«insonnia del mondo», secondo la felice espressione del poeta Giovanni Raboni, ripresa e approfondita in sede critica da padre Fernando Castelli. Se questo è il quadro complessivo, Nikos Kazantzakis non può non essere tra i testimoni di spicco. Ce lo ricorda la nuova edizione del suo libro più contestato e incompreso. L’ultima tentazione, che Crocetti propone per la prima volta in una traduzione condotta sull’originale neogreco (a cura di Gilda Tentorio e Nicola Crocetti, pagine 560, euro 16,00). A questo romanzo si ispirò nel 1988 Martin Scorsese per L’ultima tentazione di Cristo, film accolto a suo tempo da uno scandalo preventivo che negli anni ha lasciato spazio a un giudizio molto più ponderato.

Non diversamente, alla sua uscita nel 1955 anche il romanzo aveva suscitato reazioni molto dure, da parte sia della Chiesa ortodossa sia del Sant’Uffizio, che ne decretò la messa all’Indice. E del resto ancora oggi, a oltre sessant’anni di distanza, L’ultima tentazione continua a colpire il lettore per l’impianto ambizioso, in parte temerario ma di sicuro non blasfemo, come lo stesso autore si preoccupa di ribadire nella nota introduttiva. «Scrivendo questa confessione dell’angoscia e della grande speranza dell’uomo – afferma –, ero commosso al punto che gli occhi mi si riempivano di lacrime; non avevo mai sentito con tanta dolcezza, con tanto dolore il sangue di Cristo cadere a goccia a goccia sul mio petto». Per comprendere come un atto di fede così appassionato abbia potuto suscitare l’equivoco della riscrittura dissacrante occorre dire qualcosa di Kazantzakis, uno dei più clamorosi tra i casi, purtroppo non infrequenti, di Nobel mancato. Nato nel 1883 a Hiraklion, sull’isola di Creta, e morto a Friburgo nel 1957, scrittore prolifico e poliglotta, è considerato il maggior narratore greco della sua generazione. Il suo capolavoro è però Odissea, un imponente poema in 33.333 versi modellati sull’esametro classico: l’eroe è lo stesso cantato da Omero, ma le sue peripezie ricordano molto quelle del Faust di Goethe, in un viaggio attraverso il tempo che diventa cifra del dissidio latente fra l’anima e il corpo.

Mai apparsa nel nostro Paese, l’Odissea dovrebbe uscire nel 2020 da Crocetti, nella traduzione personalmente approntata dall’editore nel cui catalogo trovano già posto, oltre all’Ultima tentazione, i libri principali di Kazantzakis: Rapporto al Greco, Ascetica, Francesco e il romanzo più noto in assoluto, Zorba il greco, da cui fu tratto nel 1964 il film interpretato da Anthony Quinn. Da Castelvecchi è invece disponibile La seconda crocifissione di Cristo, che nel 1954 anticipa il nodo dell’Ultima tentazione. Anche nella Seconda crocifissione (portata sullo schermo da Jules Dassin con il titolo di Colui che deve morire) gioca un ruolo fondamentale il rapporto fra principio maschile e principio femminile, nella fattispecie fra l’uomo scelto per interpretare il Cristo nella sacra rappresentazione della Passione nel villaggio di Likovrissi e la prostituta chiamata a impersonare la Maddalena. Si tratta di uno schema ricorrente nell’opera di Kazantzakis, come conferma lo stesso Zorba il greco, dove il protagonista, simbolo della vitalità popolare, celebra un paradossale matrimonio con la compromessa Madame Hortense. Il punto di massima incandescenza si raggiunge comunque nell’Ultima tentazione. La gran parte del romanzo è occupata da una riformulazione del racconto evangelico in una prospettiva che mira a esaltare l’interiorità dell’esperienza spirituale. «Dentro di noi è il regno dei cieli, fuori è il regno del Male», afferma il Gesù del romanzo, con parole molto simili a quelle che Kazantzakis adopera in Francesco per sintetizzare a modo suo l’insegnamento del Poverello. Un’intensità mistica che rende forse opinabili alcune osservazioni, ma che non inficia lo sguardo d’insieme, che è appunto di ammirazione per il Cristo e, in definitiva, di adesione al cristianesimo. In una narrazione molto serrata dal punto di vista della cronologia, L’ultima tentazione insiste sulla questione dell’autoconsapevolezza di Cristo.

L’interrogazione su di sé accompagna Gesù in ogni momento, dall’iniziale smarrimento nella bottega di Nazareth fino alla rivelazione messianica conseguita in un monastero che ricorda molto la comunità di Qumran. Questo Gesù resiste alle tentazioni riferite dagli evangelisti (uno dei quali, Matteo, compare tra i personaggi del libro), ma non sa che l’ultima prova, la più terribile, lo attende sul Calvario. Poco più di cinquanta pagine, tesissime, nelle quali Satana si manifesta prima come angelo salvatore e poi nelle sembianze ingannevolemente innocenti di un piccolo africano. Nel delirio dell’agonia Gesù viene indotto a credere di essere scampato al supplizio e di poter vivere un’esistenza al riparo da ogni grandezza. Si sposerà, avrà figli, nessuno saprà più nulla di lui. Lo spunto è lo stesso attorno al quale D.H. Lawrence aveva costruito nel 1929 L’uomo che era morto, una novella che pretendeva di minare alle basi l’edificio del cristianesimo. Nell’Ultima tentazione si persegue l’intento opposto: perché tutto sia compiuto, e perché tutto possa veramente iniziare, Gesù affronta la tribolazione suprema e compie la scelta definitiva. Si risveglia dal sogno, resta al suo posto, non scende dalla croce. Kazantzakis scrive un apocrifo, è vero. Ma non rinnega il Vangelo.

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