giovedì 21 giugno 2018
In una società in cui la malattia comportava l'esclusione sociale senza ritorno, parole e gesti di Gesù portano Dio nella storia non come il Dio dei giusti ma come il Dio di quelli che soffrono
Lo scrittore e sacerdote portoghese José Tolentino Mendonça

Lo scrittore e sacerdote portoghese José Tolentino Mendonça

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Ogni cultura vive la malattia in maniera differente. Saggiamente raccomandano gli antropologi di distinguere fra la patologia propriamente detta, una disfunzione organica, e l’infermità, ossia l’impatto sociale della malattia. In una società come quella di Gesù, regolata da un regime religioso basato sull’idea di purezza (etnica, rituale, morale…), il prezzo esistenziale della malattia era elevatissimo, poiché essa proiettava donne e uomini in un’esclusione senza ritorno.

In tale contesto, ciò che gli infermi più desideravano non era tanto la risoluzione di una anomalia organica quanto la possibilità di approfittare pienamente della vita alla stregua di tutti gli altri. Nelle culture mediterranee del I secolo, e tanto più in una cultura contadina e povera qual era quella di Palestina, vivere disintegrati dalla protezione familiare o del gruppo equivaleva alla miseria. Le stesse leggi religiose, inoltre, rafforzavano la distanza incolmabile che separava l’infermo da Dio e dal sacro.

Gli ammalati che popolano i testi evangelici rappresentano probabilmente il settore più stigmatizzato dell’epoca. Da qui, la forza profetica dell’opzione di Gesù, che si dedicò a loro scegliendoli quali primi destinatari della misericordia di quel Dio che egli chiamava Padre. La grande sorpresa era questa: nelle parole e nei gesti di Gesù, Dio arrivava nella storia non come il Dio dei giusti ma come il Dio di quelli che soffrono.

A differenza di Giovanni Battista, che non guarì nessuno, ma s’impegnò unicamente a introdurre una svolta religiosa ed etica, Gesù proclamò un Regno di Dio ridando vita, in concreto, alle vite dolenti ed estenuate, e liberandole da svariati mali. Per il Profeta di Nazaret non c’erano dubbi: Dio tiene al centro della sua sollecitudine la sofferenza umana. Non meraviglia che i protagonisti del racconto evangelico siano gli ammalati, gli afflitti o i feriti, anche quando rimangono anonimi.

Gesù visse molto tempo dopo Ippocrate (460-370 a.C.), la cui medicina non invocava gli dei ma diagnosticava le cause e suggeriva cure in base alle conoscenze del corpo umano. La sua implementazione fu tuttavia molto lenta, anche se era un sapere sempre più riconosciuto, Bibbia compresa. Siracide 38,1-15, per esempio, fa un curioso elogio dell’arte medica e farmaceutica. Ma la gerarchia non si smuove: se ti ammali, per prima cosa prega, allontanati dal peccato, purificati, offri sacrifici; dopo ricorrerai al medico, «poiché c’è bisogno di lui».

Una plaga marginale e impoverita come la Galilea non poteva aspirare alla presenza di medici e neppure ricorrere ai grandi santuari terapeutici pagani di Esculapio, Iside o Serapide, che tanto segnarono il mondo greco. La sua risorsa erano i guaritori popolari, gli esorcisti, i maghi o uomini virtuosi che operavano più in forza di una pretesa relazione ravvicinata con Dio che con tecniche terapeutiche. Gesù sicuramente somigliava ai terapeuti ed esorcisti popolari del suo tempo, ma era anche differente. Nei Vangeli, mai si vede Gesù operare alla maniera dei maghi, che forzavano la divinità a intervenire o facevano ricorso ad amuleti o a scenografie magiche. Neppure era un medico, non faceva diagnosi né impiegava tecniche cliniche.

Il suo modo di agire era un altro. Non si concentrava solo sul male fisico, bensì introduceva l’ammalato in una relazione esistenziale nuova con Dio e con gli altri, gli trasmetteva vitalità e fiducia. Gesù non parte dalle tecniche, ma dall’amore curativo. Per Gesù, guarire è testimoniare a ogni donna e a ogni uomo, quali che siano le circostanze, che essi sono degni di essere amati. Gesù libera dagli oscuri sentimenti di colpa e di abbandono in rapporto a Dio e ci immerge nella certezza interiore della sua benedizione.

(Traduzione di Pier Maria Mazzola)

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