mercoledì 4 maggio 2016
Ivanov, dialogo universale
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Presieduto e aperto da due gesuiti, il patrologo Edward Farrugia e l’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, inizia questa mattina al Pontificio Istituto orientale e si concluderà dopodomani alla Sapienza con l’ultima sessione presieduta dall’accademico dei Lincei Mario Capaldo, il convegno Dialettica tra contingenza storica e valore universale in Vjaceslav Ivanov. Vi partecipano studiosi provenienti da diverse università del mondo, tra i quali spiccano esperti come George Nivat, Avril Payman, Denis Mickiewicz, Andrey Shishkin, Stefano Garzonio. Sono chiamati a riflettere sulla dicotomia tra 'natìo' e 'universale' nel pensiero del «rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa del XX secolo» (ha detto il filosofo Nikolaj Berdjaev del quale Ivanov finì per attuare, lo ha ricordato bene Fedor Stepun, l’esortazione «pensare meno al problema di Dio in sé e più al solco di Dio nel problema del mondo»).  Nato a Mosca nel 1866, Ivanov fu discepolo di Mommsen a Berlino, profondo conoscitore del mondo classico, protagonista del movimento simbolista russo a Pietroburgo che, accolta senza entusiasmi la rivoluzione del 1917, divenne docente di filologia a Baku dal 1920 al 1924 e appena riuscì emigrò in Italia: prima insegnando a Pavia (al Collegio Borromeo dove Benedetto Croce e Martin Buber andarono a trovarlo) e poi a Roma, al Pontificio Collegio Russicum e al Pontificio Istituto orientale con un posto assegnatogli nel 1938 da Pio XI. Nella capitale abitò sull’Aventino per oltre vent’anni, sino alla morte.  Molti gli interventi di questa 'tre giorni', che, tenendo come filo conduttore il rapporto fra tempo ed eternità in Ivanov, ne scandaglierà i percorsi poetici (Gennadij Obatnin, Dina Magomedova), teologici (Stefano Caprio), il rapporto con Solov’ev (Elena Gluchova), il contesto letterario (Andrej Toporkov), il registro sacro e storico ( Vadim Polonskij), la correlazione tra religione e cultura (Andrzej Dudek), nonché i diversi approcci: mitopoietici ( Valerij Petrov), ermeneutici (Lena Szilard), formali (Sergij Ovsjannikov, Kristina Landa), con verifiche dal celebre Diario romano 1944, la cronaca poetica dell’occupazione nazista di Roma e della Liberazione da parte degli alleati interrelata con le tematiche eterne della storia e la ricerca della verità (Avril Pyman, Alessandro Bruni), alle meno note profezie musicali-teurgiche (Konstantin Zenkin). Insomma massima concentrazione su argomenti relativi agli aspetti temporali dell’opera di Ivanov, nell’eco dei dibattiti dell’epoca sulla Chiesa capace di congiungere storico e universale, e sulle manifestazioni dell’universale nel corso del tempo. E massima attenzione sul piano storico concreto agli intensi contributi ivanoviani su tragedie come le due guerre mondiali, e sul piano filosofico teorico al collegamento tra il pensiero ivanoviano e il catastrofismo apocalittico dei contemporanei. Quanto basta anche per rileggere un poeta che oggi, attirando l’interesse per aspetti come l’arcaismo atemporale e utopico, l’intreccio sospeso di diversi piani temporali, la ricorrente trasformazione del tempo attuale nell’universale (ne parleranno al convegno Maria Pliukhanova, Roberto Valle Boris Gasparov), appare inattuale. Anzi: fuori dal nostro tempo. È così? La risposta dovrebbe essere sì. Senza però dimenticare che proprio Ivanov va annoverato - e qui troviamo invece una sua attualità - tra i precursori del più recente incontro fra Chiesa Ortodossa e Cattolica. Ortodosso russo, aderì al cattolicesimo nel 1926, senza abiurare, con una formula, validata dal Sant’Uffizio, recitata in San Pietro all’altare del patrono Venceslao, seguendo la liturgia paleoslava e con la comunione sotto le due specie. Già dieci anni prima nel suo libro Cose patrie (natìe) e universali aveva palesato i suoi principi ecumenici e universalisti, riconfermati nella lettera a Charles Du Bos dopo l’approdo alla Chiesa di Roma, sentendosi «per la prima volta ortodosso nella pienezza del significato di questa parola». Ecco dunque insieme al poeta, al pensatore, l’inventore del paragone caro a Giovanni Paolo II tra l’Occidente cattolico e l’Oriente ortodosso e i due polmoni della Chiesa. Un uomo segnato tutta la vita dall’amore per l’universalità, per la sintesi armonica delle verità parziali, per la pienezza del regno di Dio. Che riprendeva un cammino radicato nell’idea della sobornost, dell’ecumene, della conciliarità. Legato originariamente all’esperienza di Solov’ev, il maestro che vedeva il futuro dell’Europa cristiana come insieme delle tradizioni spirituali latina e bizantinoslava, ognuna incompleta senza l’altra. Ma che è andato oltre e con una soluzione non comune tra emigrati o esuli russi. A centocinquant’anni dalla sua nascita, nella 'città eterna' scelta come sua «seconda patria» dove riposa dal luglio 1949 (al cimitero del Testaccio), ancora una volta, si riaccendono i riflettori su di lui pronto a riconoscere ogni debito con il tempo e l’eterno, e a intuire che l’uomo che stava arrivando avrebbe cercato l’attimo, ma in quanto gemello dell’eternità. Restano alle spalle gli anni in cui Papini scriveva di lui come di una «lampada splendente che brucia nella solitudine». E si va nella direzione indicata da don Giuseppe De Luca che, dopo la morte di Ivanov reclamava per lui «un riconoscimento, una riconoscenza, una conoscenza che, in Italia almeno, egli non ha avuto secondo il suo merito altissimo».
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