mercoledì 21 marzo 2018
Dopo l’ennesimo deludente “cucchiaio di legno” al Sei Nazioni, parla l’ex azzurro Rivaro: «Puntiamo sull’Under 20, nel giro di un paio d’anni possono arrivare innesti per la Nazionale maggiore»
Ma il rugby d'Italia non è tutto un flop
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La pagella è negativa, l’andamento insufficiente. Terminato il Sei Nazioni il rugby italiano con il cucchiaio di legno in mano si lecca le ferite di ben diciassette sconfitte consecutive. Il morale è basso, la delusione è forte, anche se c’è più di un motivo sul perché l’Italia “ovale” non riesca proprio a vincere. Ci sono anche delle positività come quel cambio generazionale che stiamo cercando ormai di attuare da diversi anni che stenta ad arrivare e che, forse, ora si sta lentamente compiendo. Sul fronte giocatori appunto spicca il nome di Minozzi che con ben quattro mete è candidato ad essere eletto addirittura miglior giocatore di questo Torneo nonostante a settembre scorso neanche sapesse cosa volesse dire giocare a livello internazionale. L’Italia però nel Sei Nazioni ha racimolato ben 82 sconfitte, un pareggio e solo 12 successi. Ai Mondiali seppur mai andati agli ottavi di finale, la percentuale è migliore con 18 partite perse e 10 vittorie.

Con simili andamenti negativi sempre si alzano le voci che potremmo uscire dal Sei Nazioni, ma così non sarà perché il Torneo è un affare privato e non sono previste retrocessioni e ingressi. E questo forse non è neanche un bene, perché lo spauracchio di una esclusione potrebbe davvero smuovere qualcosa, invece come ormai un rituale si perde, si piange e ci si rimette al lavoro per l’anno successivo senza però un vero cambiamento deciso di rotta. Eppure la Federazione Rugby con i suoi 46 milioni di euro è una delle più ricche in Italia, ha un club (Zebre di Parma) tutto suo e mantiene in buona parte anche la Benetton Treviso. Insomma finanzia i due club che partecipano al campionato “Pro 14” con risultati, salvo quest’anno, non certo da primi della classe. Anche qui, niente retrocessioni al termine del campionato. Il rugby e chi lo comanda non è mai veramente bocciato. 46 milioni di euro ma la vittoria per gli azzurri rimane un sogno, certo è poca cosa rispetto ai 210 milioni che può gestire la Rfu, la federazione inglese. Qui la qualità di giocatori, tecnici, dirigenti è decisamente superiore, la tradizione ultrasecolare fa la differenza. Il rugby è appunto nato in Inghilterra nel 1823, pochi decenni dopo già importanti le sfide contro Scozia, Galles, Irlanda e non solo, noi ci siamo arrivati dopo oltre un secolo.

Tutto questo e tanto altro si ripercuote sul campo, il rugby è uno sport estremamente crudo e vero, in campo vince sempre la squadra più forte. Chi può farci una vera fotografia della situazione è Marco Rivaro, azzurro con 4 caps, era in campo in quella storica vittoria contro la Scozia all’esordio azzurro nel Sei Nazioni 2000. Da 18 anni risiede a Londra in qualità di responsabile Italia per una importante banca d’affari inglese. È stato l’unico italiano a giocare il “Varsity Match”, l’importante e ultra-secolare sfida tra le università di Cambridge e Oxford. Marco nel 2016 ha ricevuto anche la telefonata dalla Fir che lo voleva direttore tecnico, ma gli impegni professionali lo hanno fatto rinunciare all’idea. Da Londra però osserva da esterno la situazione: «Ci penalizza fortemente che da quando il rugby nel 1995 è diventato professionistico noi ancora abbiamo una struttura quasi totalmente dilettantistica - afferma il 45enne Rivaro - È uno sport che richiede altissima professionalità a tutti i livelli, non solo per la Nazionale, e ovviamente servono i fondi per poter retribuire questi professionisti». Rivaro ha le idee chiare: «L’Inghilterra da oltre un decennio ha fatto un progetto rimunerativo molto serio. Ogni partita che la Nazionale gioca a Twickenham incassa almeno 13milioni di euro tra biglietti, merchandising, panini e birre, diritti tv. La Nazionale è una vera “making-machine” e questi soldi vengono poi redistribuiti ai club. Tutti quelli della Premiership incassano solo dalla federazione almeno 4-5 milioni di euro, in Italia i nostri club d’Eccellenza non arrivano al singolo milione di euro di budget totale annuo. Manca dunque una progettualità a medio lungo periodo. Il rugby è tradizione, non si può puntare solo sulle Accademie per i giovani, quelle devono essere un punto di arrivo, bisogna dare respiro a Padova, Rovigo, Treviso e le altre città che così possono permettersi uno staff di professionisti. In Italia i club non hanno sicurezza, i giocatori non sono sereni perché non sanno se riceveranno uno stipendio, così facendo non si può davvero trovare il massimo della performance».

Marco conosce bene O’Shea, il nostro ct che ora ha un ruolo in campo ma anche manageriale sulla gestione degli azzurri: «Giocavo con lui nel 2000 quando eravamo nei London Irish ed è davvero in gamba. A mio avviso è necessario che in Fir vi sia un “director of rugby” di altissimo profilo e grandi capacità internazionali. Che conosca marketing e finanza, che sappia come elevare se non raddoppiare il budget federale, così come servirebbe uno stadio di proprietà come ha la Juventus. La differenza si vede. Solo con più risorse economiche potremo finanziare tutto il sistema, compresi i piccoli club dove c’è la base, dove troviamo i bambini. I rugbisti si formano dagli 8 ai 12 anni, dopo è tardi. È qui che bisogna dare la massima qualità d’insegnamento tecnico, senza contatto e placcaggi che a quell’età non serve a nulla, serve saper superare l’uomo e saper gestire alla perfezione il passaggio ad esempio. Serve che il rugby venga insegnato alle famiglie, ai ragazzi, ma anche alle ragazze come uno sport non violento e che fa star bene. Solo così allargheremo la base e gli sponsor si potranno avvicinare. Bisogna creare un giro d’affari molto più ampio e creare tanta qualità. Non a caso Negri e Polledri oggi in azzurro sono nati e cresciuti in Inghilterra. Allan in Scozia. Ci sarà un motivo perché sono dei campioni?». La domanda è d’obbligo: era più forte la Nazionale che negli anni ’90 ci ha aperto la strada del Sei Nazioni oppure quella di oggi? «Prima del 2000 ci fu una generazione di atleti fantastici, con individualità superlative. Quella era una squadra davvero tosta e per questo poi c’è stato il vuoto nel decennio successivo».

Ora qualcosa dietro c’è: «La Nazionale Under 20 ha vinto contro Galles e Scozia, in un paio d’anni devono arrivare tre-quattro innesti alla Nazionale maggiore». Sì è vero, l’azzurro si può tramutare anche in verde speranza, il futuro porta i nomi di Garbisi e Jelic dell’under 18 ma anche del capitano dell’under 20 Michele Lamaro. Su questi ed altri nomi servono investimenti, sicurezza e competenza per poterli gestire al meglio.

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