martedì 21 maggio 2013
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Traditi, rastrellati, deportati… L’illusione che l’8 settembre 1943 comportasse la fine della guerra fu pagata drammaticamente dai soldati italiani e dalla popolazione che generosamente li aiutò. Il caleidoscopio delle centinaia e centinaia di migliaia di casi individuali viene progressivamente componendosi e codificandosi nella ricerca storica; perdendo con ciò l’immediatezza e la spontaneità della testimonianza, ma guadagnando un quadro di riferimento imprescindibile. L’esigenza politico-diplomatica di sistematizzare questo insieme di problemi portò nel marzo 2009 i ministri degli Esteri Frattini e Steinmeier a istituire una Commissione storica italo-tedesca che il 19 dicembre 2012 ha presentato alla Farnesina un rapporto sulla conclusione delle proprie attività. Malgrado la presenza di importanti studiosi tedeschi nella Commissione, questo genere di lavori lascia sempre il tempo che trova. Facile e ingeneroso elencare i problemi irrisolti, ricordare i fondi archivistici pubblici e negletti che avrebbero potuto chiarire, anzi scoprire quanto ancora non noto, eccetera. Vediamo piuttosto quanto di utile se ne può ricavare anche in merito alla testimonianza pubblicata in questa pagina: dove venivano raggruppati i soldati italiani prima d’esser deportati? «Caserme, campi sportivi e stadi di calcio che si trovavano nelle vicinanze di stazioni ferroviarie»; circostanza che ha evitato alla Commissione di produrre una "mappatura" del tipo di quella offerta dallo Schreiber nel volume Militari italiani internati (Monaco, 1990, traduz. it. 1993) dei vari tipi di Lager diffusi in tutta Europa. Lager che tuttavia appaiono nella motivazione della medaglia di bronzo al valor civile concessa da Ciampi il 31 marzo 2005 a Mantova per l’abnegazione mostrata dalla popolazione «nell’offrire rifugio, assistenza e nascondiglio ai soldati italiani ed alleati prigionieri nei campi di concentramento tedeschi». C’erano dunque Lager? O non erano tali? Un po’ di precisione in questi atti ufficiali non guasterebbe. Tanto più che proprio il percorso dei prigionieri da Parma a Mantova, ricordato nella testimonianza, scavalca appena a nord, senza che se ne faccia menzione, il campo di Fossoli. Un campo di transito rievocato nelle pagine di Primo Levi, che suona appena meno sinistro della triestina Risiera di San Sabba. Cosa seguiva dopo, da caserme, centri di raccolta o campi di transito, comincia ad essere definito da testimonianze convergenti: il viaggio nelle note condizioni estreme; l’oscurità della meta, spesso scoperta solo all’arrivo; e lo smistamento negli Stammlager (riservati a sottufficiali e soldati) e Offizierslager (per ufficiali). Il conto di questi campi di concentramento veri e propri è fatto approssimativamente dalla Commissione: una sessantina i primi, 15 i secondi (ora nuovi documenti ne consentiranno un censimento dettagliato). La durezza dei sorveglianti è soggetta a una classificazione geografica: più buoni gli austriaci, a metà i tedeschi (peggio i giovani degli anziani), al vertice della severità… gli altoatesini. Condizioni che tuttavia andavano variando a seconda di circostanze storiche (indurimento dopo l’arrivo alleato a Roma o lo sbarco in Normandia) e di tempo (miglioramento man mano che progrediva l’inserimento nel lavoro in fabbrica, la conoscenza della lingua tedesca, le relazioni col personale femminile, l’approssimarsi della fine della guerra). La questione del lavoro è una questione di particolare sensibilità che rischia di provocare strappi al politically correct: a seguito dell’accordo Mussolini-Hitler del 20 luglio 1944 (perché la Commissione trascura il ruolo del duce e della missione italiana?), gli internati militari italiani, con varie modalità, volontariamente o obbligatoriamente, a seconda di diverse circostanze di tempi e di luoghi, mutarono lo status giuridico in quello di liberi lavoratori civili, con tanto di paga in Reichsmark. È ancora oggetto di studio la realtà pratica della trasformazione; certo si guadagnò relativa libertà di circolazione e migliorarono in un primo momento le condizioni generali, salvo precipitare col tracollo tedesco. Ma quel lavoro nelle fabbriche, come ricordato dalla memorialistica raccolta nelle antologie di Claudio Sommaruga (ad esempio nel Dovere della memoria, Roma 2003), metteva in contatto questi ex internati con i lavoratori italiani volontari del ’38, per lo più fascisti, determinando rapporti tesi. Altrettanto tesi, incredibilmente, i rapporti coi rastrellati sopraggiunti dalle città italiane e avviati promiscuamente al lavoro con gli ex internati. Questi erano oggetto di costante propaganda politica, su cui impattavano quei gruppi di sventurati sottratti d’improvviso a famiglie, occupazioni, studi… In più documenti viene prospettata personalmente a Mussolini l’opportunità di tenere separati questi da quelli; ne parlano diplomatici di Salò e, al termine d’una lunga visita nei Lager, perfino uno dei cappellani più noti per la sua opera di assistenza (accusato di far propaganda fascista), il francescano fra Ginepro. È un dramma nel dramma. Che non finisce col ritorno degli internati: alle lacrime di commozione versate al Brennero, fa presto riscontro la percezione amara d’essere accolti con fastidio, con la pubblica volontà di rimozione di quella memoria stracciona; mentre si incontrano compagni di prigionia, presto arruolatisi nelle truppe della Rsi per lasciare i Lager, che – disertato al momento opportuno e trascorsi gli ultimi mesi "in montagna" – passano ormai per eroi. È uno spaccato della società italiana che deve ancora trovare il coraggio di fare i conti con se stessa.
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