giovedì 8 ottobre 2009
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In un italiano un po’ arcaico Imi significherebbe «posti in basso», oppure «di infima condizione». Ed è oggettivamente difficile trovare una sigla più allusiva per significare la condizione degli Internati Militari Italiani: i 650 mila connazionali arrestati dai nazisti dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei campi di lavoro in Germania. «Imi» di nome e di fatto: perché sprofondati in quella che, nell’universo concentrazionario hitleriano, potrebbe essere paragonata alla palude degli ignavi, nemmeno degnati – da una parte – della qualifica di prigionieri di guerra (per non farli accedere ai benefici della Convenzione di Ginevra e all’assistenza della Croce Rossa) e – dall’altra, per mezzo secolo dopo la Liberazione – del prestigio di aver partecipato anche loro, col sangue e a pieno titolo, alla Resistenza. Ma tutt’altro che ignavi essi furono; e anzi, per restare fedeli al giuramento di soldati ma non combattere contro i fratelli di patria, pronunciarono lungo 20 mesi il «no» della dignità a chi voleva riportarli in Italia arruolandoli nelle truppe di Salò. Per fortuna però, da un quindicennio a questa parte (complice un benemerito «revisionismo»), la considerazione di questi «partigiani anomali» sta crescendo, sia nell’opinione pubblica sia nell’interesse degli studiosi. Lo dimostra – tra l’altro – l’antologia ragionata su Gli internati militari italiani che Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno appena compilato con «diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945» (Einaudi, pp. 336, euro 20). «Oggi si parla di 4 diverse Resistenze – così lo storico Giorgio Rochat nella prefazione –, senza una graduatoria: la resistenza contro i tedeschi delle forze armate l’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi». Un chiarimento che suona da definitivo riconoscimento della storia «ufficiale» per il muto sacrificio di quegli uomini, sul quale peraltro (a parte i meritori studi scientifici di ricercatori tedeschi) e nonostante i forse 200 diari di superstiti pubblicati soprattutto dal 1985 in qui, resta molto da lavorare: «Se c’è un capitolo misconosciuto della guerra di liberazione – attaccano infatti gli autori – è la storia degli Imi». A cominciare dal loro numero: su circa 2 milioni di effettivi dell’esercito nazionale all’8 settembre, i nazisti ne catturarono poco più della metà (58.000 in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani; altri 200.000 riuscirono a fuggire quasi subito). 94.000 – quasi tutte camicie nere – passarono direttamente con Salò. Dunque «al netto» i deportati italiani furono 710.000, più 20.000 considerati invece prigionieri di guerra e mandati sul fronte orientale come lavoratori aggregati all’esercito tedesco. «Entro la primavera 1944 – scrivono Avagliano e Palmieri – 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la Rsi, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600 e i 650 mila rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia. Soldati e sottufficiali avviati al lavoro coatto; ufficiali fiaccati da mesi di fame e di stenti nei lager». Infatti circa 50.000 non torneranno a casa: 23.300 stroncati da inedia e malattie, 4600 uccisi dai nazisti, 2700 periti sotto i bombardamenti, 10.000 morti per «cause varie» durante il lavoro obbligatorio, altri 5-7000 periti sul fronte orientale. Un olocausto però non vano, pure in termini strettamente militari: anzitutto il rifiuto degli Imi di farsi nuovamente arruolare «sottrasse alla disponibilità di Hitler e Mussolini oltre 600.000 uomini utilizzabili sui vari fronti», soprattutto in Italia; e se ciò non avrebbe cambiato le sorti del conflitto, però sarebbe stato in grado di allungarne considerevolmente i tempi. Ma poi «la scelta degli Imi ebbe ripercussioni anche sul piano politico italiano, finendo per rappresentare, di fatto, un contributo diretto alla Resistenza nazionale e alla lotta antifascista». Infatti – «considerato che ogni famiglia aveva almeno un parente o un conoscente internato in Germania» – «la vicenda degli Imi rappresentò per l’opinione pubblica uno dei principali motivi di delegittimazione del governo repubblicano fascista» contribuendo «a creare in patria, direttamente tra la popolazione, terreno fertile o addirittura aperta adesione alla Resistenza». Infine il «no» degli Imi contribuì al «riscatto italiano grazie al quale il Paese nel dopoguerra poté presentarsi tra le nazioni democratiche, vincitrici sul nazifascismo... Gli Imi vennero a contatto con i loro ex nemici e l’intera Europa assistette al loro sacrificio, più duro di quello dei prigionieri di guerra e molto più simile a quello dei deportati politici e razziali». È quanto mai consolante che la storiografia «ufficiale» e militante (i due autori fanno parte dell’Anpi) si spinga a considerazioni tanto esplicite su una Resistenza «altra» rispetto a quella partigiana: «Anche gli Imi combatterono un’altra guerra. Una guerra senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto, alla sopraffazione fisica, morale e spirituale». Tra l’altro «il "no" all’adesione non era una scelta facile. Non va dimenticato che a quella generazione di italiani era stato insegnato per vent’anni a dire "sissignore"». Anche per questo – scrive ancora Rochat – «dinanzi a questa scelta di massa bisogna ritrovare la capacità di stupirsi, anche di scandalizzarsi. Questi 650.000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate dopo l’8 settembre... Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio... Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler... Rimane un caso unico la scelta di massa di questi militari italiani... Una scelta per la patria senza maiuscole né aggettivi, la comunità nazionale in cui tutti potevano riconoscersi». Una lezione preziosissima tuttora.
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