sabato 20 aprile 2013
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Molti, appena tornati, senti­rono il bisogno di testi­moniare. Qualcuno lo fe­ce subito, qualcun altro preferì a­spettare anni. Decenni, a volte. Tutti, però, erano tormentati da un sogno ricorrente: trovarsi in mezzo a una folla, cominciare a racconta­re che cosa era successo laggiù e accorgersi che, uno dopo l’altro, gli altri voltavano le spalle, si allonta­navano, non volevano saperne di ascoltare. Laggiù  era il Lager, il campo di sterminio o prigionia in cui il narratore era stato deportato durante la guerra. Un angolo, in­somma, di quell’univers concentra­tionnaire che nel 1946 il francese David Rousset descrisse nel libro omonimo. Il suo memoriale è con­siderato uno dei documenti più precoci di quell’esercizio di me­moria che, per molti lettori, culmi­na in Se questo è un uomo di Primo Levi. Ma anche prima di Levi, e an­che prima di Rousset, i testi sul La­ger non mancavano. Spesso poco visibili, perché pubblicati da edito­ri minimi o minori, quando non addirittura da tipografie locali. Ma molti degli elementi poi divenuti familiari grazie a Elie Wiesel, Jorge Semprún e altri classici del Nove­cento sono già riscontrabili nelle opere che l’italianista Elena Ron­dena indaga nel prezioso La lette­ratura concentraziona­ria (Interlinea, pagine 292, euro 20).
Frutto di un rigoroso la­voro di documentazio­ne, il volume esibisce in bibliografia il regesto pressoché completo dei libri apparsi già a partire dal 1944, anno del cele­bre Otto ebrei di Giaco­mo Debenedetti ma an­che dell’altrimenti sconosciuto L’internata numero 6 di Maria Ei­senstein. La trattazione vera e pro­pria, però, si concentra sulle diver­se tipologie – o, se si preferisce, sui diversi generi – in cui la «letteratu­ra concentrazionaria» nostrana può essere suddivisa. Sette in tutto, dal saggio alla poesia, passando per lettere e diari, racconti e ro­manzi, oltre che per l’autobiogra- fia. Di ciascun ambito Elena Ron­dena prende in esame tre opere, per un totale di venti autori, dato che di uno stesso scrittore, il roma­no Aldo Bizzarri, si analizza sia il saggio Mauthausen città ermetica (1946) sia il romanzo Proibito vive­re (1947). Alcune esclusioni posso­no forse colpire, come quella del Diario clandestino di Giovannino Guareschi, ma sono comunque compensate dalla ric­chezza complessiva di informazioni e dall’ori­ginalità degli altri esem­pi selezionati.
Di particolare utilità è la cronologia suggerita dalla studiosa. Alla co­siddetta «emorragia di espressione» degli anni immediatamente suc­cessivi la fine del con­flitto non corrisponde un adeguato interesse dell’industria editoriale. Lo stesso Levi, com’è noto, fatica a pubblicare Se questo è un uomo: rifiutato da Einaudi, il libro esce in­fatti in sordina nel 1947 presso la torinese De Silva. Appena in tem­po, si potrebbe dire, perché dal 1948 alla metà degli anni Cinquan­ta sull’argomento pare calare il si­lenzio, rotto poi in modo definitivo proprio dall’edizione einaudiana del capolavoro di Levi (1958), alla quale si accompagnano le tradu­zioni italiane del Diario di Anna Frank, della Specie umana di Ro­bert Antelme e di altri titoli capita­li. Da allora l’interesse va raffor­zandosi sempre più, consentendo fra l’altro la pubblicazione di alcu­ni dei testi scelti da Elena Ronde­na, come il vasto corpus epistolare del cattolico Odoardo Focherini, le poesie dell’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso e Il silenzio dei vivi di Eli­sa Springer. Grande at­tenzione è riservata agli scritti delle donne, tra cui spicca Questo povero corpo di Giuliana Tede­schi, che nel 1946 sem­bra anticipare il titolo del libro di Levi. Ma anche Alba Va­lech, che nello stesso anno dà alle stampe il suo A 24029 , utilizza una strategia in parte simile a quella che ritroveremo in Se questo è un uomo, anteponendo al racconto u­na poesia dall’andamento salmo­diante. Il riferimento all’Inferno dantesco, che tanta parte avrà nel­la riflessione di Levi, emerge occa­sionalmente in Filo spinato, il dia­rio che l’ufficiale Giuseppe Zaggìa diffonde già nel 1945. Si tratta – sia chiaro – di coincidenze del tutto autonome e comprensibili, così come la presenza della famigerata «corriera azzurra» segnalata in mo­do indipendente dai superstiti di Mauthausen: un mezzo che, nella versione ufficiale del Lager, sareb­be stato usato per i trasferimenti, ma che in realtà trasportava i con­dannati a morte.
Un altro aspetto che si presenta a più riprese riguarda le radicate con­vinzioni religiose alle quali gli internati fanno appello per resistere agli orrori dell’universo con­centrazionario. Lo sguardo della fede si ri­trova, per esempio, in Triangolo rosso del sa­cerdote milanese Paolo Liggeri, ma anche, e con intensità straordina­ria, nel Diario da Gusen e nelle Let­tere a Maria del pittore Aldo Carpi: «È la luce del Verbo che vince – an­nota quest’ultimo in una pagina –, è il tutto che è nulla, è il minimo che è il massimo». Una testimo­nianza, anche questa, che chiede ancora di essere ascoltata.
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