sabato 22 ottobre 2016
​Settanta anni di Repubblica, eppure l'unità del popolo resta lontanta. Né i leader né i partiti sanno creare un progetto nazionale.
Gli italiani? Sono ancora da fare
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La Repubblica italiana ha più di settant’anni. Il bilancio è positivo sotto molti aspetti. Ma tra gli italiani è diffusa l’insoddisfazione. Gli italiani sono insoddisfatti anche perché più divisi e meno partecipi di un destino comune. Apparentemente, il XXI secolo ha portato il ritorno dei nazionalismi, incrinando un’unità europea che sembrava ormai irreversibile. Sospesi fra esaltazioni etnicistiche e spinte populistiche, sono nazionalismi insicuri e compulsivi, spesso inconcludenti e talvolta autodistruttivi. Lo sviluppo della globalizzazione è all’origine tanto delle loro fortune quanto della loro impotenza ed è dalla globalizzazione che si deve ripartire anche per capire la storia dell’Italia repubblicana.  Anche nel tempo della globalizzazione, tuttavia, ogni nazione dipende anzitutto dal «plebiscito di ogni giorno» di cui parlava Ernest Renan e cioè dalle scelte dei suoi membri e dalla loro volontà di stare insieme. «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» recitava uno slogan risorgimentale, ma è anche vero il contrario: sono sempre stati in primo luogo gli italiani a fare – o a disfare – l’Italia. L’Italia è sempre stato il Paese dei guelfi e dei ghibellini, delle tante fazioni e dei molti schieramenti perché è connaturato a una realtà attraversata da profonde fratture il ruolo rilevante di tanti partiti che si radicano in molteplici cleavages geografici, sociali, culturali, religiosi... In presenza di tanti partiti diversi costituisce un problema rilevante la loro capacità o meno di fare sistema. L’Italia unita, non a caso, è nata da un accordo tra partiti diversi, ideologicamente contrapposti e politicamente antagonisti, che ha trasformato la sconfitta del 1848 nel successo del 1859-1861. Monarchici e repubblicani, liberali e democratici, moderati e radicali, cattolici e anticlericali, dopo essersi a lungo scontrati finirono per collaborare alla realizzazione dell’unificazione politica intorno al Regno di Sardegna e al progetto cavouriano che pure in molti non condividevano.  L’intesa tra partiti, ovviamente, non è sempre positiva. Il Trasformismo di Depretis a Crispi – e cioè la 'trasversalità' parlamentare destra-sinistra di fine Ottocento – è spesso ricordato come momento di degenerazione della politica. Analogamente, sarebbe un grave errore mettere sullo stesso piano la convergenza al centro – realizzata nei primi decenni repubblicani, con il centrismo, il centro-sinistra e la solidarietà nazionale – e il consociativismo degli anni Ottanta. Aiuta a capire se si è davanti a intese virtuose o a cattivi compromessi la presenza o meno di visioni di fondo e di una mission da realizzare. Durante il Risorgimento sono state storicamente decisive risorse immateriali di tipo morale e culturale. Nel 1861 l’Unità d’Italia è stata accompagnata da un duro scontro tra Chiesa e Stato e il dissidio ha fortemente indebolito lo Stato, togliendogli legittimazione e consenso. Ma la spinta alla riunificazione degli italiani è stata alimentata anche da una forte componente religiosa. E, successivamente, la conciliazione tra le due istituzioni ha costituito un obiettivo che la politica italiana ha cominciato subito a perseguire. Sotto il profilo giuridico-formale, il dissidio è stato composto nel 1929 con i Patti lateranensi.  L’accordo con il regime fascista, però, ha costituito solo una conciliazione di vertice. La spinta a una conciliazione definitiva, invece, ha immesso un’energia inedita nella vita politica italiana dei primi decenni repubblicani. È stato questo l’obiettivo perseguito da De Gasperi, per molti versi vero e proprio 'padre della Repubblica', così come Camillo Cavour è stato 'padre del Regno d’Italia'. Dopo i primi decenni repubblicani, molte cose sono cambiate quando le rapide trasformazioni del contesto internazionale hanno posto sfide nuove e imprevedibili. Alla fine degli anni Settanta è cominciata quella crisi della democrazia consensuale che avrebbe portato al collasso politico dei primi anni Novanta. In questo percorso, particolare rilievo ha avuto anche il cambiamento della Chiesa. Già dopo il Vaticano II e durante il pontificato di Paolo VI, la Chiesa aveva cominciato ad accantonare la mobilitazione contro le 'religioni secolari' – le ideologie novecentesche – per assumere le sfide di una 'nuova evangelizzazione'. Ma è stato soprattutto con Giovanni Paolo II che ha superato l’orizzonte della società di massa, in cui tanta importanza hanno avuto i totalitarismi, abbandonando il progetto maritainiano maturato a partire dagli anni Trenta.  Il papa polacco, troppo spesso collegato allo scontro finale tra comunismo ed anticomunismo, è stato soprattutto colui che ha traghettato la Chiesa nel nuovo millennio e nel nuovo 'disordine mondiale'. Dal declino della Prima repubblica è nata la Seconda. Non sono state, infatti, la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Urss a cambiare improvvisamente la storia d’Italia. Ma piuttosto un lungo contrasto tra un cambiamento globale sempre più accelerato e la difficoltà sempre più evidente di élites e popolo a prendere in mano un comune destino. È emblematica in questo senso la contraddizione tra aumento abnorme del debito pubblico e vincoli europei sempre più stringenti. Indeboliti dalle proprie non-decisioni, i principali partiti della Prima repubblica sono stati travolti dal Big bang degli anni Novanta e, più in generale, dalla crisi della democrazia rappresentativa. Nel contesto della nuova 'democrazia del pubblico' descritta da Bernard Manin, in Italia si sono imposti nuovi soggetti politici, caratterizzati da una forma leggera, mediatica e, persino, 'di plastica', sempre più identificati con il loro leader e funzionali a una crescente personalizzazione della politica. Berlusconi ha riempito il vuoto creato dalla scomparsa dei grandi partiti di massa, attirando verso di sé un largo consenso e tamponando la crisi di fiducia dei cittadini nei loro rappresentanti. Il 'populismo' berlusconiano ha così risposto alla crescente sfiducia dei cittadini nella classe politica. Ma non ha offerto una risposta efficace all’indebolimento delle istituzioni. Nel 2011 le conseguenze di una crisi economico- finanziaria a lungo negate e rimosse sono esplose, obbligando a fare i conti con i vincoli europei precedentemente trascurati, sottovalutati e persino disprezzati. La crisi del 2011 ha messo in discussione molti elementi del sistema politico della Seconda repubblica E il tramonto di Berlusconi ha trascinato con sé quello del bipolarismo conflittuale. La scadenza del settantennio repubblicano, tuttavia, ha colto un’Italia ancora incerta tra eredità del passato e superamento della Seconda repubblica. Nell’Italia nel XXI secolo sono possibili un nuovo 'plebiscito' quotidiano, che esprima una ritrovata unità degli italiani, e una nuova stagione di accordo tra i partiti? Unità degli italiani non significa ritorno di spinte nazionalistiche: non è questa la via d’uscita dai problemi dell’Italia e degli altri Paesi europei, ma la capacità di popoli ed élites di realizzare nuovi progetto nazionali integrati in un comune orizzonte europeo e adeguati alle sfide della globalizzazione. È quanto sollecitano questioni cruciali – da tempo irrisolte – come quella degli immigrati, nel contesto di un calo demografico in Italia particolarmente pesante.
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