mercoledì 7 gennaio 2009
Da oltre dieci anni un’esperienza di riconciliazione fra 500 persone che hanno avuto un lutto nel conflitto mediorientale
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Le prime immagini televisive di una guerra sono sempre le macerie. Case, tetti, vetri, stra­de: tutti ridotti in mille pezzi dalle esplosioni. Ci sono però anche ma­cerie più nascoste, che difficilmen­te arriviamo a vedere. Sono quelle di chi con fatica, anche nel cuore di un conflitto, non ha mai smesso di costruire ponti di riconciliazione. E ora – sotto il fuoco degli F16 israe­liani come dei razzi palestinesi – vede anche tutto questo andare in frantumi. Come vivono queste ore terribili di guerra a Gaza tutte quelle associa­zioni che hanno fatto dell’incontro tra israeliani e palestinesi la loro ra­gione di vita? Una testimonianza molto significativa ci giunge dal Pa­rents Circle, il gruppo che da oltre dieci anni vede insieme genitori i­sraeliani e palestinesi accomunati dal fatto di aver perso in questo conflitto un proprio caro. Si incon­trano, provano a capire ciascuno il dolore e dell’altro e a dare una te­stimonianza forte: «Se noi, che ab­biamo pagato il prezzo più alto, riu­sciamo a parlarci – dicono con una semplicità disarmante – perché in Israele e in Palestina non dovrebbe­ro riuscirci anche tutti gli altri?». Lo hanno ripetuto anche in questi giorni con una breve presa di posi­zione ufficiale in cui affermano che «la soluzione del conflitto non può venire dalla violenza» e che «la ri­conciliazione tra i due popoli è l’u­nica garanzia di una pace duratu­ra ». Ma ancora più forte è la testimo­nianza personale che uno di questi genitori (in tutto sono circa 500) ha proposto sul sito www.theparent­scircle. com. Il 1° gennaio Robi Da­melin – la madre di David, un sol­dato israeliano ucciso nel 2002 a un posto di blocco nei pressi di Ofra, nei Territori palestinesi – ha messo per iscritto il proprio stato d’animo rispetto alla nuova tragedia che si sta consumando. «Piacerebbe an­che a me vedere tutto bianco o tut­to nero, senza quelle tonalità di gri­gio che insistono a ricordarmi che non ho il monopolio della verità – scrive Robi Damelin –. Come mi piacerebbe affrontare la vita senza pormi troppe domande. Ma la sola cosa di cui sono certa è che, quan­do i media se ne vanno, chi ha per­so una persona cara sperimenta nel cuore un dolore tanto grande che hai la sensazione di bruciare. E questo dolore non ha colore: non è verde oppure azzurro e bianco (i colori delle bandiere di Hamas e di Israele ndr). Questo dolore non ha identità politica. E resta sempre con te, indipendentemente da qua­le maschera tu scelga di indossare in un determinato giorno». A partire dalla sua tragedia Robi prova a immedesimarsi con altre donne. «La madre di Gaza ha pro­vato subito terrore quando – alcuni giorni fa – ha visto sparare 80 razzi contro le città israeliane che si tro­vano poco lontano. Sapeva certa­mente dall’inizio che sarebbe stata lei a pagarne le conseguenze. Che avrebbe pagato cara la bravata dei suoi leader che si rifiutavano di rin­novare un qualsiasi accordo. Ha av­vertito che lei e tutti i suoi vicini, ancora una volta, sarebbero stati le vittime di politici che – da entram­be le parti – conoscono solo la vio­lenza come via per risolvere i con- flitti, indipendentemente da quan­to abbiano ragione o meno. E que­sta madre, come quella di Sderot, non ha nessuna risorsa a disposi­zione per proteggere i propri cari dalla violenza». Per Robi Damelin è la logica del 'bianco o nero', l’incapacità di ca­pire che ci sono anche le ragioni dell’altro, la causa dei conflitti. «Proviamo invece a guardare alla realtà – continua – con gli occhi dei bambini da troppo tempo imprigio­nati in questa spirale di vendetta. Loro gridano piangendo di smetter­la di uccidere. Ma nessuno li sente. Tutti sono impegnati a giustificare la loro causa, infiammati dai loro sostenitori che vivono lontano, do­ve i bambini non vestono un’u­niforme e non soffrono la penosa vita quotidiana dei palestinesi. Ma – oserei dire – non sono neanche i bambini che vivono nei kibbutz e nelle città intorno a Gaza. È facile dire 'non bisogna scendere a com­promessi' quando si sta seduti in un posto sicuro e niente ti mette al­la prova. È facile non scendere a compromessi quando i tuoi bambi­ni non hanno fame, e possono an­dare a scuola, costruirsi un futuro». Eppure i nemici del compromesso non abitano solo in Paesi lontani. Ce ne sono tanti anche sulla prima linea di questo dramma. «Quelli che rimangono imprigionati nella logi­ca del bianco o nero, quelli che vi­vono nelle città attorno a Gaza sventolando le loro bandiere azzur­re e bianche e hanno accolto con un sospiro di sollievo la notizia di questa guerra – scrive Robi Damelin –. In realtà non vedono il grigiore di un futuro riempito da altre genera­zioni di odio da parte dei propri vi­cini e di razzi, possibilmente più so­fisticati, per distruggere la loro pace interiore e le loro case. Non ci pos­sono essere vincitori in questa guer­ra. Solo altri cuori spezzati». Che fare, allora? «Una cosa è certa – risponde la madre di David, soldato israeliano ucciso dai palestinesi – dobbiamo parlarci, e affrontare la verità. Quella che dice che nessuna delle nostre due nazioni scompa­rirà in una scia di fumo. E dobbia­mo anche imparare a scendere a compromessi per il bene di quei bambini che implorano salvezza. Dobbiamo smetterla con il metodo della vendetta e cercare nuove stra­de che non comportino l’uccisione di innocenti. Possiamo certamente trovare una strada per vivere pacifi­camente in maniera dignitosa gli u­ni accanto agli altri. Per conto mio – conclude Robi Damelin – conti­nuerò il mio lavoro con il Parents Circle. Non con i giudizi in bianco e nero, ma sempre con una tinta di grigio e la convinzione che la vio­lenza genera solo altra violenza». Un incontro dell’associazione «Parents Circle»
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