mercoledì 8 gennaio 2014
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È uno Stato, un popolo, una storia, una religione. Israele è al tempo stesso immerso nel mondo e al di sopra di esso, categoria del pensiero dalle infinite sfaccettature – e ognuna di queste, a sua volta, carica di infinite implicazioni. A cavallo tra geopolitica, storia e filosofia: e proprio filosofico è l’approccio che Donatella Di Cesare – docente di Filosofia teoretica alla Sapienza e vicepresidente dalla Società heideggeriana – dà al suo Israele. Terra, ritorno, anarchia, in uscita domani per Bollati Boringhieri (pagine 110, euro 12,50). Anzi: «Il mio – dichiara – è il primo libro filosofico su questo tema: la questione di Israele è inserita nel contesto della globalizzazione e del tramonto degli Stati-nazione. Israele è diventato il surrogato dell’ebreo nella retorica antisemita. Si parla dello Stato di Israele? Oppure del nome con cui viene chiamato tutto il popolo ebraico? Io ho cercato di aggirare l’alternativa riflettendo sul futuro dell’Israele attuale alla luce dell’antico Israele e dunque della Torah. Spero di contribuire a rivedere vecchi stereotipi, a superare recinti e steccati, per uscire da quella logica della belligeranza di cui risente anche l’informazione sul conflitto».Israele storico, sionismo, Stato-nazione… Come s’intersecano e come si sovrappongono queste categorie?«Sono convinta che il sionismo politico, quello di Herzl, abbia avuto il merito di ottenere una cittadinanza ebraica e uno “Stato degli ebrei” mentre la modernità volgeva al termine. Il prezzo è stato, però, il rifiuto dell’estraneità, cioè della vocazione di Israele. Una volta fondato lo Stato-nazione, emerge infatti la tragicità del sionismo: se prima era il singolo ebreo, ammesso come cittadino, a restare un paria, dopo il 1948 è lo Stato di Israele il paria fra gli Stati-nazione. Ecco perché ho ripreso e sviluppato quella corrente del sionismo culturale o filosofico che, da Buber a Lévinas, guardando oltre lo Stato ha affidato a Israele un compito ben più ampio. Ha visto nel ritorno a Sion non l’instaurazione di una patria nazionale, ma l’apertura di un nuovo ordine del mondo». Eccezionalità di Israele e voglia di normalità degli israeliani: come si può sciogliere – se si può sciogliere – questa tensione?«Al desiderio piccolo-borghese di normalizzazione deve essere opposta la vocazione all’estraneità che ha guidato nei secoli il popolo ebraico. Che il compito di Israele non sia quello di sovvertire l’ordine statocentrico del mondo? L’aveva già intuito Hannah Arendt. Ecco perché l’emergere di Israele è per me l’emergere di tempi nuovi. È come se, nella storia dei popoli che lungo i secoli sono andati spartendosi il pianeta, Israele abbia fatto ritorno per disturbare questa spartizione, per contestarla nel mezzo delle frontiere, proprio su quella terra». Quanto la peculiarità dell’area geografica – per i cristiani, la Terra Santa – incide sulla percezione ideale di Israele e sul destino dello Stato storico? Una delle accuse più frequenti mosse a Israele è aver occupato le terre altrui, quelle dei palestinesi…«Sì, molti vorrebbero vedere qui l’illegittimità di Israele, il suo peccato originale. Il mio intento è di rovesciare l’accusa. È un tema toccato di recente da intellettuali su posizioni opposte, da Shmuel Trigano a Judith Butler. Ma che cosa vuol dire “terra promessa”? Nell’ebraismo vuol dire che la terra-madre è soppiantata da una terra-sposa, che non può essere rivendicata per un diritto acquisito. Sulla terra promessa Israele è chiamato dunque a testimoniare la possibilità di un nuovo abitare ricordando a sé e agli altri che nessuno è autoctono, nessuno cioè è indigeno. Non lo sono però neppure i palestinesi, che fanno a loro volta l’errore di richiamarsi a un’autoctonia. La terra promessa è concessa a chi viene da fuori, a chi ne è già separato, a chi vi giunge da straniero. È per far sì che i popoli che la abitano diventino stranieri e che gli stranieri vi trovino la loro residenza. Così, per entrambi, potrà essere terra d’asilo. Perché ogni popolo è invasore di una terra che non gli appartiene e che può abitare solo se serba il ricordo della sua estraneità. Sulla Terra nessuno è autoctono: va rilanciato lo statuto di “stranieri residenti” per delineare una nuova politica. Per questo cito all’inizio del libro un versetto di Levitico che mi sembra particolarmente attuale: “Mia è la terra, perché voi siete stranieri e residenti provvisori presso di Me”. Siamo tutti ospiti e affittuari. Lo dovremmo ricordare bene anche in Italia. La condizione di “stranieri residenti” è la sola in cui per la Torah è consentito abitare la terra. La riprendo sia per far valere i diritti di una cittadinanza aperta, sganciata dallo Stato, sia per guardare il conflitto mediorientale sotto una prospettiva inedita». Nell’epoca della globalizzazione, dei confini sempre più labili rispetto all’età degli Stati-nazione, ha ancora senso parlare di “due popoli e due Stati”?«A mio avviso, no. E sono in molti ormai a dubitare che sia questa la road map per la pace. Sotto la spinta della globalizzazione i confini dei singoli Stati sembrano implodere. Il conflitto tra Israele e Palestina va letto come il conflitto fra una società post-nazionale e una società proto-nazionale. Sta qui in gran parte la difficoltà: le due parti non s’incontrano, anche perché si trovano in fasi diverse della loro storia. Ma ha senso moltiplicare confini e limiti e ipotizzare dunque due Stati? Non rientra questa soluzione nel paesaggio di una tarda modernità? Occorrerebbe invece pensare a forme nuove di sovranità e soprattutto di cittadinanza per una terra che è refrattaria ai confini perché è in sé una frontiera, è anzi la soglia della Trascendenza».E allora quale può essere la strada verso la pace nella regione?«Siamo abituati a intendere la pace solo negativamente, come il superamento mai definitivo delle ostilità. Perciò la guerra ci sembra un rimedio inevitabile, mentre non riusciamo neppure a immaginare la pace. C’è un modo per uscire da questo circolo che va dalla guerra alla guerra? Per intravedere un al di là? Ebbene, è proprio la preoccupazione quotidiana per l’altro ciò che porta oltre la guerra. Il che vuol dire che la pace non va rinviata a una fine di là da venire. Il circolo si spezza e la guerra è interrotta da una pace anarchica che contesta la priorità della guerra, che ne rovescia l’ordine. Shalom è in ebraico un nome di Dio e vuol dire la pace che, non imposta, irrompe con la giustizia».
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