lunedì 25 marzo 2013
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Ha scritto Francesco Petrarca che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» e, se consideriamo anche l’etimo sak, «lontananza», si riferisce al fare sacro di colui che colma o pone nel modo giusto la distanza tra l’uomo e se stesso, l’individuo e gli altri individui, e l’uomo e la divinità, allora comprendiamo anche il valore della parola pontefice, pontifex, «colui che fa da ponte». Se poi consideriamo che un uomo è sì fatto di corpo, ma anche di anima e di Spirito, che il suo Spirito è sempre più attento e cosciente della sua mente e del suo occhio, e che persino il suo corpo raccoglie più impressioni e sensazioni di ogni esperienza di quanto possa fare la mente, ecco che vengono chiariti quei versi danteschi in risposta a Bonagiunta Urbiciani quando nel Purgatorio gli chiede chi egli sia: «I’ mi son un che quando/ amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’ei ditta dentro vo significando» – io sono uno che, quando l’amore soffia o muove, ascolto e prendo nota, e a quel modo che lui detta dentro vado riempiendo di segni di lingua e di cultura. E comprendiamo anche Hans Urs von Balthasar: «Se la bellezza diventa una forma che non può considerarsi identica allo Spirito e alla libertà, allora siamo piombati in un’epoca di estetismo, e i realisti hanno ragioni da vendere contro la bellezza». Scriveva molti anni fa il comunista Concetto Marchesi: «Le origini della poesia si fondono spesso con i canti e i rituali religiosi», e lo conferma la conoscenza di tutti i grandi libri religiosi. Si tratti dell’Antico Testamento ebraico o degli Evangeli cristiani, o dei libri indiani dei Veda o la Gita, o i Carmina Fratrum romani, tutti scritti in versi. Il poeta Giuseppe Ungaretti poteva perciò affermare nel 1932: «Oggi un poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio anche quando sembra una bestemmia». Tutto questo non intende farci addentrare in qualcosa che riguardi soltanto la letteratura o voler sminuire il valore dell’intelligenza e delle logiche mentali. Ma soltanto riguardare alla poesia e alle arti non soltanto come uno svago o, più o meno gradito, componimento letterario, ma come un itinerario di conoscenza e sapienza alla portata di tutti. Persino un filosofo come Benedetto Croce ha scritto: «Nel filosofo accade il medesimo che nel poeta. Non è lui che filosofa, ma Dio o la natura. Anzi, dirò di più, è la cosa che pensa se stessa in lui», e persino Einstein, parlando di scienza – e questa citazione la faccio soprattutto per coloro che pensano la scienza quale apice del pensiero logico o tecnico-matematico – scrive: «Non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione (...) e l’intuizione non la facciamo noi (...) ma è possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza». Quindi Amore, sia in scienza che in filosofia che nelle arti. Ha scritto il monaco tedesco Angelo Silesio: «Il mio corpo è un guscio in cui un pulcino sarà covato dallo Spirito dell’eternità». La parola è dunque, in tutte le religioni, un tramite per indurre al risveglio quell’entità profonda che è insita nel nostro corpo. Scrive ancora von Balthasar: «Poeti e amanti sanno come spiare l’anima e condurla al centro dell’attenzione». In vari momenti della mia vita – ho cominciato a scrivere poesie a 35 anni – ho avuto diverse altre esperienze di me stesso e del mio rapporto con lo Spirito. Prima, fin da bambino, scrivevo diari, narrativa, teatro, e studiavo in particolare filosofia e scienze o leggevo e commentavo i Vangeli. Ma, quando nel 1965 sono stato spinto alla poesia, scrivevo sia in tram o in bus o per strada quel che mi si agitava dentro, e poi a casa rivedevo, correggevo, riascoltavo con stupore. Nel 1970, quando nel giugno-luglio sentii ancora l’impulso dello scrivere, dirò soltanto che mi aggiravo per le stanze di casa e recitavo ad alta voce quanto veniva detto dal mio essere intero, preoccupandomi soltanto di ritenere a memoria per certi tratti le parole che sentivo e come le sentivo. Naturalmente si trattava delle mie esperienze e la memoria aveva un ruolo primario, ma ogni cosa mi veniva detta in modo diverso da come l’avevo pensata. A poco a poco fui indotto ad ascoltare soltanto i ritmi e i suoni. La mia mente era, del resto, troppo occupata a ricordare per poter in qualsiasi modo intervenire o suggerire. Certo che la sapienza serve, prima e dopo, ma essa non produce di per sé poesia. Essa è utile perché ci dà la libertà nel momento del fare – come potremmo scrivere non conoscendo l’alfabeto o le varie tecniche? –, poi è necessaria a rimediare il cattivo o non perfetto ascolto nel momento del dire. Ma ogni poeta vi potrà dire che la prima impressione, rileggendo quanto ha scritto, è di stupore, come fosse stato detto da un altro. Si ama Bach, o tanti altri musicisti, non perché conosciamo la musica, ma perché ci trasporta nell’infinito di noi stessi, perché sa coprire la distanza che ci separa spesso dall’infinito in noi e fuori di noi. Ma questo accade anche ascoltando Petrarca o Dante o Leopardi, e tanti altri veri poeti. Si tratta solo di ascoltarli in noi stessi e nel loro amore per ciò che non sempre riusciamo a dire.
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