Vittime che diventano carnefici di altre vittime e a loro volta sono sottoposte ai peggiori tormenti se non danno il massimo come aguzzini: un meccanismo perverso quanto perfetto, preteso dal dittatore jugoslavo, ideato dal suo braccio destro Kardelj, realizzato da Rankovic, l’onnipotente capo dell’Udba, la polizia segreta. Per la prima volta da allora una delegazione internazionale di ambasciatori è in visita ufficiale. Li ha invitati l’associazione “Ante Zemljar” di Zagabria, composta dai pochi sopravvissuti e dai familiari dei morti. «“Goli Otok” è un nome che per decenni nessuno ha mai osato pronunciare – spiega il presidente, Darko Bavoljak, parente di un “nemico del popolo” internato per due anni –, nemmeno chi, una volta “rieducato”, poteva tornare a casa. Si rimaneva tutta la vita sotto osservazione e bastava una parola sbagliata, anche solo un sospetto, per essere riportati sull’isola». Non si sapeva di Goli Otok, si spariva e basta. Le famiglie non conoscevano destinazione e condanna, aspettavano, anche per molti anni. E intanto venivano punite anch’esse: le mogli (o i mariti: 850 donne furono avviate alla colonia penale nella vicina isola di San Gregorio) erano costrette a divorziare, sfrattate, licenziate. I loro bambini espulsi dalle scuole. Tra il 1949 e il 1956 gli internati furono sedicimila, tra i quali centinaia di italiani (tristemente noto il caso degli operai di Monfalcone, attratti in Jugoslavia dal miraggio socialista di Tito e poi ripagati con questa moneta). «Nel 1948 Tito e Stalin ruppero il loro sodalizio e la Jugoslavia fu espulsa dal Cominform – continua Bavoljak –. Da allora il maresciallo perseguitò tutti coloro che riteneva fedeli a Stalin: era una guerra tra comunisti». Ma si stima che meno del cinque per cento dei detenuti fosse davvero stalinista; il resto erano semplici cittadini, familiari o amici degli internati. Sbarchiamo. Un vecchio cartello sbrecciato ci accoglie in cinque lingue sull’isola deserta, «Dobro dosli, Willkommen, Welcame, Bienvenu, Benvenuti», e due date, 1948-1988: per quarant’anni prima il gulag, poi il carcere minorile. Fino al ’56 la motonave Punat vomitò migliaia di disgraziati: «I nuovi prigionieri appena arrivati dovevano passare tra due file di vecchi prigionieri per lo stroj, il supplizio del benvenuto – racconta Pavao Ravlic, 90 anni –. Noi lo chiamavamo “la lepre calda”: migliaia di detenuti infierivano con calci e pugni, picchiavano furiosamente senza risparmiarsi, spezzavano ossa, intanto sputavano e insultavano i compagni di sventura. Che per abbreviare il tormento cercavano di correre, ma si era nudi e scalzi e sulle pietre aguzze restava il sangue dei piedi feriti». Lo stroj durava anche un chilometro e mezzo e molti svenivano prima della fine. Una tortura che si ripeteva per una parola di troppo o, peggio, per un atto di pietà. «Non era prevista la pietà. Se si accorgevano che non infierivi con tutta la forza, poi toccava a te. La cosa più spaventosa era riconoscere tra i torturatori i visi di amici o dei tuoi stessi familiari». Più disumano ancora era il bojkot, una forma di vessazione assoluta che durava mesi, durante i quali tutti dovevano in ogni modo massacrare il corpo e la psiche del boicottato, «alla fine non assomigliava nemmeno più a un uomo... Quelli di noi che prima erano stati in un lager nazista dicono che era meglio un mese ad Auschwitz che un giorno qui». Insegne ormai scolorite, poste su ciò che resta degli edifici, oggi tentano di dare un aspetto turistico e guidano i pochissimi che si avventurano sulla pietraia candida... «Prigione nella prigione», recita il cartello sulla costruzione 102, con le celle di rigore riservate ai “problematici”. Ancora peggio stavano i reclusi nella fossa 101, un vero girone che scende sotto terra: vivevano lì dentro, se il verbo ha ancora un senso. Ovunque muri abbattuti, finestre e porte scardinate, grate divelte. È stata la rabbia degli ex prigionieri, tornati dopo la chiusura, a infierire sul carcere. Ed è stato il tempo che passa, la bora, la salsedine, quel sole che anche a maggio cuoce i cervelli e abbaglia la vista, figuriamoci nelle estati torride o negli inverni rigidi dei lavori forzati, inventati per fare impazzire: «Ridotti a scheletri, per ore e ore spaccavamo le pietre – raccontano i due sopravvissuti –, poi dovevamo trasportarle da una parte dell’isola all’altra. E una volta finito, dovevamo riportarle dov’erano prima. Un’umiliazione che annientava la personalità». Vengono da tutto il mondo gli ambasciatori, rappresentano l’America e la Russia, l’Italia e la Svezia, il Giappone e il Canada, e poi Francia, Spagna, Romania, Kosovo... Li ha coinvolti Furio Radin, parlamentare del Sabor croato e presidente dell’Unione Italiana, deciso a fare dell’Isola Calva un parco della memoria: «Sono stato il primo a ricevere in Parlamento l’associazione “Ante Zemljar” e la commissione per i Diritti dell’uomo e delle minoranze che presiedo si è fatta paladina perché Goli Otok non scompaia nell’oblio, come vorrebbero in molti». Lo vuole la sinistra croata perché il crimine è comunista, lo vuole la destra perché ritiene che una “faida tra comunisti” non la riguardi... «Invece è un crimine contro l’umanità e ci riguarda tutti. Occorre subito una legge, come per l’Olocausto e le foibe, perché l’Isola Calva diventi un’area memoriale, con un circuito per visitare le prigioni e i luoghi di tortura. La legge è pronta, giace nei cassetti a Zagabria. Se aspettiamo c’è il rischio che il turismo divori, digerisca e poi espella la storia terrificante dell’isola. Forse qualcuno vuole proprio questo». «Sapevo di Goli Otok, ma toccare con mano è impressionante. Condivido la necessità di una fondazione e un parco della memoria che preservi questo luogo simbolo», dice l’ambasciatore italiano a Zagabria, Emanuela D’Alessandro. «Fare dell’Isola Calva una località balneare offenderebbe il sacrificio e il martirio che qui si consumò», conferma Fabrizio Somma, presidente dell’Università Popolare di Trieste. Ma già qualche sparuta famiglia arriva con costume e asciugamano e si stende al sole, proprio sul luogo dello stroj. Nel punto dell’attracco la “Konoba Pržun”, “Locanda Prigione”, è solo una modesta tettoia, per insegna un paio di manette e alla parete le inferriate prese dalle celle, per bellezza... Una finta porta con numero e chiavistello è lì per il turismo dell’orrore: 5 kune (meno di un euro) e puoi tenerti alle sbarre per farti la foto. Presto dovrebbe sorgere un villaggio turistico e le baracche verrebbero spianate. L’Arcipelago Goli sparirebbe per sempre, con le lacrime e il sangue di chi spaccò le sue pietre e dei tanti che vi sono seppelliti, chissà dove. Tutto è assurdo, qui. È assurdo il blu del mare, è assurda la natura incontaminata. Le baracche del gulag sfregiano la bellezza dell’isola come abiette cicatrici su un viso perfetto. Sono inferno e paradiso che si toccano. È Goli Otok.
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