martedì 26 ottobre 2010
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Che cosa vide Ludovico de Varthema durante il suo proibitissimo haj, il viaggio alla Mecca intrapreso nell’aprile del 1503, naturalmente travestito da mamelucco per salvare la testa, con partenza da Damasco attraverso l’Egitto, la Siria e l’Arabia meridionale? In quei quaranta giorni e quaranta notti di cammino il cui resoconto di cose e di costumi, ma anche di arguzie e di predoni divenne un autentico best seller per un paio di secoli, egli vide di certo molte cose, ma il senso dell’impresa non fu tanto nella loro novità (alla "porta d’Oriente" di Venezia, del resto, ne erano già sbarcate parecchie per via di commercio, mentre per altre vie ne erano state edotte la Spagna, e la nostra Sicilia), tant’è che per stuzzicare un poco le fantasie dei lettori non ebbe remore a buttar lì qualche mirabolante raritas (i due unicorni che racconta di aver visto nel tempio della Mecca, o i diecimila gatti maimoni incontrati sulla strada tra Sanaa e Aden…). No, l’avventura era proprio lì, in quella violazione del limite consentito all’uomo d’Occidente, quell’entrar dentro la terra del profeta Muhammad e mescolarsi insieme agli usi e ai lussi, all’arte e ai sacrifici della sua gente. Comporre insomma un metro di misura tra la cultura del soggetto di marca occidentale (anche quando fa, diremmo noi oggi, nomadismo culturale) e quella islamica della ummah (della unità dell’etnia, della nazione, ma anche della sua sovranità) che in quel luogo sentì sulla sua pelle e vide con i propri occhi, restandone ammirato.Sono passati secoli, eppure in fondo non molto è mutato: se quella dell’islam è ancora la cultura verso cui ci si presenta con l’atteggiamento della violazione del limite (e in questo sì in perfetta reciprocità), la sua arte non può non lasciare ammirati. Una prova tangibile ne è la collezione di arte islamica avviata da al-Sabah nel 1975 e giunta in otto anni a qualcosa come ventiseimila pezzi: è tra le maggiori del mondo per l’ampiezza cronologica che vi è rappresentata (dal VII al XVII secolo), lo spettro geografico delle aree di provenienza dei reperti (dalla Spagna all’Estremo Oriente) e per la tipologia degli oggetti raccolti (praticamente tutto: monete, tappeti, sculture, miniature, tessuti, vetri, ceramiche, avori, metalli lavorati… e una sezione di gioielli che ne fanno un unicum al mondo). Per una volta, dunque, è difficile immaginare le difficoltà del curatore di una mostra non per metterne insieme i pezzi "giusti", ma al contrario per decidere di quali poter fare a meno pur avendoli lì a portata di mano, e assicurando comunque al pubblico un’ampiezza, una completezza e una qualità, in fin dei conti una bellezza che davvero riverbera quella della prodigiosa collezione. Compito toccato a Giovanni Curatola e perfettamente assolto per metter su, attraverso 350 pezzi, questa mostra coprodotta da Skira – che pubblica anche il catalogo e il citato Viaggio alla Mecca di Ludovico de Varthema (pp. 112, euro 15) – e dal Comune di Milano, pienamente e finalmente all’altezza degli impegni culturali annunciati.Dalla moschea al cucchiaio l’arte islamica ne risulta, come la cultura religiosa che la innerva, arte di sintesi. Per la gran varietà di forme, di stili (spagnolo-maghrebino, egiziano-siriano, yemenita, anatolico, indiano), di tecniche, di iconografie che l’attraversano. Per la quantità di secoli che abbraccia, dagli inizi del periodo omayyade (661-750), in cui forma il proprio linguaggio sulla tardoantichità orientale e occidentale, a quando, nel IX secolo, si affermano definitivamente, a Sammara, quelli che ne sono i tratti caratteristici (la modularità ritmica e infinita, lo schema geometrico inesausto, l’arabesco, il disegno astratto), e poi gli influssi dalla Cina che portano nel periodo timuride a uno stile raffinato quanto quello dei miniaturisti di corte, fino ai grandi imperi cinquecenteschi ottomano, safavide e moghul. Ma soprattutto per quel carattere sopranazionale e diffuso che le consente di attraversare il tempo e lo spazio con una costante di modernità che, in casa occidentale, è prerogativa del design. Un carattere che si travasa dalla calligrafia (l’iconografia madre dell’arte islamica) all’oggetto, il cui decoro geometrico o all’arabesco, con quei motivi ripetuti e mai "conclusi" che continuano secondo uno schema modulare ritmico e infinito, è vera epifania di Dio e della sua inesauribile creazione; nel giardino fiorito di un lussuoso tappeto come su un semplice piattino di terracotta o, appunto, in un cucchiaio.Milano, Palazzo Reale Al-Fann - Arte della civiltà islamica - Fino al 30 gennaio 2011
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