giovedì 5 aprile 2018
Un saggio mette in luce l’originalità del pensatore ebreo di origini lettoni e la sua passione eticopolitica per il presente, fra tradizione e disagio verso il secolo in cui gli era toccato vivere
Il filosofo e scrittore Isaiah Berlin (Giovannetti/effigie)

Il filosofo e scrittore Isaiah Berlin (Giovannetti/effigie)

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La conferenza di Isaiah Berlin su Joseph-Marie de Maistre, insieme a altre sei (su Helvétius, Rousseau, Fichte, Hegel, Saint Simon), fu trasmessa nel 1952 dalla BBC: proprio un anno dopo la pubblicazione del suo libro forse più famoso, dedicato anche all’opposizione tra due tipi ideali di intellettuale, e cioè Il riccio e la volpe, impiegata per comprendere la grande letteratura russa dell’Ottocento. Le raccolse poi, nel 2002, il devoto Henry Hardy, in un libro dal titolo felice: La libertà e i suoi traditori (tradotto da Adelphi nel 2005). Scrive Berlin, l’ebreo lettone in fuga dalla rivoluzione bolscevica che aveva già guadagnato, in quegli anni, una posizione di primo piano nella cultura non solo europea: «Può darsi che de Maistre parlasse il linguaggio del passato, ma il contenuto di ciò che aveva da dire è la sostanza stessa del discorso antidemocratico dei nostri giorni; a paragone dei suoi contemporanei progressisti, egli è in effetti ultramoderno, nato non tanto dopo, quanto prima della sua epoca. Se le sue idee non ebbero nell’immediato un’influenza più ampia, è perché il terreno, durante l’arco della sua vita, non era ricettivo».

Si tratta d’una riflessione che qualifica subito la sua originalità di pensatore, diciamo così, militante, nutrito d’una grande passione etico-politica per il presente, maturata in virtù d’una costante meditazione sulla tradizione e alimentata da un’allarmata insoddisfazione per il secolo in cui gli era toccato vivere: che quattro anni prima di morire, in una lettera ad Arthur Schlesinger del 4 ottobre 1993, aveva definito come il «peggiore che l’umanità abbia avuto ». Sarà per questa ragione che, nonostante il rilievo sempre avuto nel dibattito culturale internazionale, gli storici della filosofia del Novecento l’hanno di regola ignorato? Col rubricarlo, quando di rado avveniva, sotto l’etichetta riluttante di storico delle idee: neutralizzandone così, in un sol colpo, l’eccellenza teoretica e le qualità di stile, che di rado dimorano nelle pagine dei meri studiosi, i cui pregi – si sa – sono quasi sempre altri. Certo, la sua eccentrica e disinvolta versatilità non l’aiutò – quella di chi è in grado d’interpretare con la stessa facilità di risultati John Langshaw Austin e la filosofia di Oxford degli anni 30 o Aldos Huxley, il notevole e incompreso storico Lewis Namier o i grandi Boris Pasternak e Anna Achmatova della feroce Russia dello stalinismo (vedasi, a tal proposito, il bellissimo Impressioni personali del 1980) –, cui non mancò né la disamina puntuale e analitica, né il dono della sintesi e della formula folgorante, per uno scrittore parimenti eccellente tanto nel discorso e la commemorazione, quanto nell’arte del ritratto. Isaiah Berlin, insomma, è stato troppe cose – e troppo di tutto – per essere facilmente classificato: nelle vicende della vita come nella complessità dei rapporti, nei mille rivoli dei più diversi interessi e nella vastità impressionante di un’opera in parte ancora sommersa, nei referti d’un epistolario eccezionale, in cui, non di rado, germinavano i primi spunti che avrebbero poi nutrito le idee degli scritti maggiori.

Ecco perché arriva ora – benemerito – Isaiah Berlin. La vita il pensiero (Rubbettino, pagine 342, euro 18,00), il libro d’un giovanissimo studioso, Alessandro Della Casa, che, per la prima volta, ricostruisce integralmente, su documenti anche inediti, la vicenda biografica e intellettuale dello scrittore, dopo avergli dedicato, appena quattro anni fa, l’importante L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin. Della Casa muove dalla costatazione, in sede di fortuna critica, «della scarsa presa di coscienza» dell’importanza che ha, nel suo pensiero, l’«indagine sull’appartenenza», non di rado ricondotta -coi suoi principi sionisti seppure di moderato- a una radice irrazionale, esclusivamente emozionale e non suscettibile di giustificazioni, mentre invece «permea le (sue) riflessioni sui filosofi del pluralismo, quelle sulla libertà». Ma per arrivare a comprendere tutto ciò, Della Casa sostiene, direi berlinianamente, la necessità di sopprimere «quella divaricazione tra il piano intellettuale e quello biografico» solitamente propugnata dagli interpreti più accreditati: di qui l’ampio e assai innovativo impiego, oltre che del già citato e importantissimo epistolario (ove rameggiano i condizionamenti familiari e del carattere, le inclinazioni e le idiosincrasie, l’importanza di certi sodalizi o di alcune polemiche), di fondamentali interventi pubblici, tra dibattiti e interviste; di qui l’imprescindibilità di taluni rapporti che travalicano la sfera solo filosofica (tra i quali, notoriamente cruciale, quello con Wittgenstein), come col primo presidente israeliano Chaim Weizmann e Ben-Gurion, Winston Churchill e Margaret Thatcher.

Solo nell’interazione di questi livelli di studio (biografico, storico e antropologico, filosofico) sarà possibile – e Della Casa ce lo dimostra con agio – intendere appieno quello che lo studioso chiama il «liberalismo nazionale» di Berlin, inscritto in un orizzonte etico che è quello occidentale, e così provare a sciogliere i nodi delle questioni più controverse: quale sia la fonte dei valori e il loro eventuale carattere oggettivo; la possibile definizione del «pluralismo valoriale» e di quello culturale, nonché la loro possibile correlazione; la peculiare natura del liberalismo e la sua giustificazione, in un mondo in cui i conflitti morali, sia intraculturali che interculturali, non possono non essere presupposti. Berlin insomma – in oscillazione tra lucida definizione della natura umana (il suo legno storto) e la valutazione di quel che, in meglio, potrebbe diventare – non ha smesso mai di fare i conti con l’uomo in carne e ossa, calato in una determinata e condizionante comunità, ma anche di fronte alle possibilità concrete della sua libertà. Sempre critico tanto del liberismo atomistico e consumista, quanto del comunitarismo organicista e totalitario.

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