mercoledì 29 maggio 2013
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​A un certo punto sembra che per l’imputato si metta male. È quando il magistrato dell’accusa, Carlo Nordio, accarezza l’idea di un’aggravante. Oltre ai reati di violenza privata (art. 610 del Codice penale) e di abuso d’ufficio (art. 323), a Ippocrate, nato a Kos nel 460 a.C., potrebbe essere contestato l’esercizio abusivo della professione medica. L’idea, a dire il vero, non è di Nordio, che semplicemente sfrutta una suggestione contenuta nella lunga deposizione del testimone da lui convocato, l’oncologo Umberto Veronesi. Per il quale Ippocrate è un individuo dispotico ed egocentrico, portatore di un modello di medicina paternalistico e autoritario, che priva il paziente del diritto all’autodeterminazione. Ecco, basta questa parola per renderci conto di dove ci troviamo. Non nell’Atene vitale e contraddittoria del V secolo a.C. (un paradiso libertario, ripetono Veronesi & Nordio, che evidentemente considerano la condanna a morte di Socrate come un trascurabile effetto collaterale), ma nella Milano del 2013. al Piccolo Teatro Studio, che nella serata di lunedì si è trasformato nell’aula di un tribunale, presieduto per l’occasione da Stefano Dambruoso. «Strano – scherza il giudice –, in questa città nessun vuol farsi processare e invece Ippocrate è finito proprio qui...». Merito dell’associazione culturale Prospectus, che ha organizzato l’incontro, ma anche di quanti hanno voluto prendere parte a questo che, nonostante le apparenze, è tutto fuorché uno spettacolo. Del presidente e dell’accusa si è già detto. La difesa è patrocinata da Cesare Rimini, civilista di chiara fama alla sua seconda esperienza da penalista («L’altra volta ero molto giovane – ricorda –, però me la cavai bene»).Anche il testimone a discarico è un principe del Foro, l’avvocato Luigi Isolabella, molto noto per la sua competenza in controversie di ambito sanitario. Resta l’imputato, al quale presta voce e volto il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, con un camice da medico che sta a indicare che il padre della medicina sarà pure «figlio del suo tempo», come l’interessato sottolinea, ma il suo tempo non è poi così diverso dal nostro.Cambiano le istituzioni, non gli uomini. Non cambia, più che altro, la materia elementare in cui ciascuno di noi è impastato: la bellezza della vita, il destino di morte. «Perfino gli dèi – ribadisce Tarquinio – hanno un tempo assegnato». Al di là del profilo poco lusinghiero dottamente tracciato da Veronesi (che si spinge a definire «non scientifica» la dottrina professata dagli antichi greci, mescolando ad arte definizioni e parametri sedimentati in millenni di storia), il dibattimento non riguarda tanto Ippocrate, quanto il celebre Giuramento che ancora oggi ogni medico è tenuto a pronunciare. Davvero, come sostiene l’accusa, quella promessa di non somministrare «un farmaco mortale a nessuno, per quanto richiesto», va considerata alla stregua di una giustificazione morale dell’accanimento terapeutico? Oppure (è la tesi sostenuta dalla difesa) l’impegno a non nuocere esclude a priori l’eventualità di acuire le sofferenze, che fra l’altro andrebbe contro l’altro caposaldo del <+corsivo>Giuramento<+tondo>, quello che lega l’operato del medico al rispetto della giustizia? «Il mondo sta invecchiando – scandisce l’Ippocrate di Tarquinio –, la cura diventa sempre più costosa, anti-economica. Ma “medicina” rimane un altro nome dell’amore, così come il medico rimane colui che si carica sulle spalle le sofferenze degli uomini, e non le cancella, non le impone mai». È questo, probabilmente, l’argomento decisivo, destinato a prevalere sull’impianto accusatorio di Nordio, persuaso che il concetto di indisponibilità della vita umana – sancito dalla nostra Costituzione – sia solamente il portato di una mentalità «clerico-fascista», complicata da nostalgie marxiano-totalitarie. Si gioca la carta dell’attualità (il caso Welby, la morte di Eluana Englaro), però alla fine la strategia vincente è quella impersonata da Tarquinio e sostenuta da Rimini e Isolabella: il pensiero di Ippocrate sta alla base della medicina moderna, perché supera in via definitiva la superstizione della malattia come castigo divino e va alla ricerca delle cause che, provocando lo squilibrio nel corpo, generano sofferenza. Il processo si svolge adesso, nell’Italia confusa che conosciamo, ma la giuria popolare si pronuncia come usava ai tempi di Pericle: una sfera bianca per l’assoluzione, una colorata per la condanna. Il verdetto ribalta le previsioni dell’accusa, che ostenta sicurezza fino all’ultimo. I voti a favore di Ippocrate sono 216, solo 145 contrari.Tocca al presidente Dambruoso motivare la sentenza, e lo fa con un ragionamento limpido e convincente. Rispettare «la volontà del paziente nelle scelte diagnostico-terapeutiche», sostiene, non significa ammettere «un valore assoluto dell’autodeterminazione», specie quando questa può «mettere in pericolo la vita stessa del soggetto». Un cittadino italiano, sostiene Dambruoso, sarà anche libero di suicidarsi, ma questo non comporta l’esistenza di un diritto positivo al suicidio. Il Giuramento, dunque, conserva intatta la sua validità e per dimostrarlo è sufficiente rimanere sul piano della pura e corretta razionalità. Quanto alle motivazioni religiose, nel Processo a Ippocrate sono state evocate unicamente – e polemicamente – dall’accusa. Ed è stato un altro passo falso.
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