giovedì 7 marzo 2013
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​Tanta materia prima, tanti addetti, tantissimi clienti. Vista così, la ridistribuzione delle eccedenze alimentari sembrerebbe in condizioni ottimali. Ma non appena si passa all’analisi dei meccanismi, il quadro si fa meno incoraggiante. A sostenerlo è Alessandro Perego, ordinario di Logistica e Supply Chain Management presso la School of Management del Politecnico di Milano. Domani, nella seconda giornata di "Convivio", tornerà a presentare i risultati di Dar da mangiare agli affamati (Guerini e Associati), ricerca condotta tra il 2011 e il 2012 in collaborazione con la Fondazione per la Sussidiarietà. «Ogni anno – sottolinea – l’Italia gestisce 6 milioni di tonnellate di eccedenze alimentari, per un valore di 13 miliardi di euro. Detto altrimenti, un sesto dei consumi finisce in spreco».Colpa delle nostre cattive abitudini?«Le famiglie sono responsabili per una quota del 45%, dato non trascurabile, certo, ma che ci obbliga a considerare il ruolo svolto del comparto alimentare, responsabile delle eccedenze in ragione del 55%".Non si potrebbe evitare di produrre in eccesso?«Obiezione comprensibile e molto diffusa. Il problema è che le aziende hanno i loro buoni motivi per dotarsi di scorte di sicurezza e così, anche quando l’offerta non incontra la domanda, ci troviamo sempre in una prospettiva di rischio calcolato. Il fenomeno è fisiologico e non può essere risolto in modo semplicistico».Allora che si fa?«Si impara a distinguere tra spreco e spreco. C’è una qualità delle eccedenze che va tenuta in considerazione. Gli avanzi domestici hanno un bassissimo grado di recuperabilità, al contrario di quanto accade per il surplus generato dalle aziende, con possibilità di riutilizzo medio-alte. La buona notizia è che il 51% dell’eccedenza appartiene a quest’ultima tipologia».E la cattiva?«Fatto 100 il totale, oggi solo il 6-7% viene recuperato. Il resto, purtroppo, è del tutto perso, almeno per quanto concerne le finalità sociali. Sto dicendo che il surplus non finisce necessariamente in discarica (procedura che pure rappresenta un costo per le aziende), ma è impiegato come mangime animale o per il recupero energetico. La scommessa consiste nel rendere più efficiente il percorso di ridistribuzione».In che modo?«Torniamo allo schema iniziale. Tanta materia prima, ossia tanta eccedenza alimentare. Tanti addetti, e cioè i volontari degli enti impegnati in questo campo. E tantissimi clienti: quella parte di popolazione, sempre più numerosa, costretta a ricorrere agli aiuti. A scarseggiare, però, sono le risorse che non rientrano nelle tipologie appena indicate. La mediazione tra azienda e assistenza deve essere svolta in modo professionale, nell’interesse sia delle grandi marche, i cui prodotti non possono essere in alcun modo squalificati, sia dell’utente finale. Ma per compiere i vari passi in modo corretto occorre dotarsi di personale in grado di operare la prima cernita e poi di magazzini, celle frigorifere, mezzi di trasporto…».Servono investimenti, dunque.«Sì, ma proprio questi sono venuti meno con la crisi economica. Da parte delle aziende si registra una crescente disponibilità nella condivisione delle eccedenze, ma non sempre le infrastrutture sono adeguate allo scopo. È a questo punto che lo Stato dovrebbe intervenire in forma sussidiaria. Anche perché, glielo assicuro, l’investimento è assolutamente vantaggioso».In che misura?«Con pochi milioni di euro si potrebbe ottenere un risparmio di centinaia di milioni, se non addirittura di miliardi. Ora come ora, nessun business è altrettanto remunerativo».
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