mercoledì 25 agosto 2010
Di padre ebreo e madre cattolica, il giudaista unisce idee e convinzioni dell’una e dell’altra fede. «Sono stato battezzato appena prima delle leggi razziali fasciste, da un prete che è poi divenuto "giusto tra le nazioni"».
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«Sì, mi pare che oggi stiamo assistendo a una certa risalita della lettura della Bibbia, rispetto al suo carattere di libro assente di qualche anno fa… E ancor più di quando ero bambino, quando non erano pochi i preti che ne proibivano la lettura!». Già docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e tuttora di Antico Testamento presso gli Istituti di scienze religiose delle università di Urbino e Trento, Paolo De Benedetti è membro della commissione ecumenica e per il dialogo interreligioso della diocesi di Asti. Ma la sua influenza nel faticoso cammino di dialogo (lui preferisce il termine «incontro») fra ebrei e cristiani va molto al di là del prezioso magistero intellettuale: maestro nel senso ormai sempre più desueto della parola, uomo di frontiera di grande apertura e altrettanta spiritualità, altrove ha definito «marrana» la sua condizione, caratterizzando la propria identità confessionale nei termini di una presenza simultanea di categorie mentali e fedeltà ebraiche e alcune convinzioni cristiane, in combinazione instabile ma irrinunciabile. Abbiamo parlato con lui del credere e del non credere, a partire dalla descrizione della sua educazione religiosa, agli inizi degli anni Trenta nella sua Asti.«Mio papà, ebreo laico, aveva deciso che sarebbe stata la mamma a occuparsi dell’educazione religiosa mia e di mia sorella Maria. Così avemmo un’educazione insolita, per quei tempi: niente catechismo, ma lettura dei testi del Nuovo Testamento, da un libro in francese che lei ci traduceva. Nel contempo, papà riteneva che il credere fosse un passo personale, per cui non ci fece battezzare ma disse che avremmo deciso noi il da farsi. Così, il 25 gennaio del 1938 – pochi mesi prima delle leggi razziali del regime – monsignor Umberto Rossi, che sarà insignito del riconoscimento di "Giusto fra le nazioni" da Israele, mi amministrò il battesimo, la prima comunione e la cresima, nella cappella del vescovo di Asti, presenti solo mia mamma e mia sorella».Racconti la sua storia di credente…I nostri nonni materni possedevano grossi libri che contenevano un gran numero di racconti biblici, con belle illustrazioni: erano le storie sacre della tradizione di san Giovanni Bosco, un po’ sulla linea di quelli che gli ebrei chiamano targumim. Li leggevamo avidamente, poi con Maria si giocava costruendo casette e bambolotti che raffiguravano i personaggi biblici: ricordo ancora la casa di Abramo… Poi la mamma ci regalò la Bibbia per il bambino, che possiedo ancora, sempre storie sacre ma in fondo a ciascuna pagina veniva riportato un breve testo biblico. A scuola, poi, l’insegnante di religione ci fece acquistare il Vangelo, che era la mia lettura quotidiana prima di dormire. Rammento che a 12 anni (avevo un confessore "evoluto"...) chiesi se potevo leggere la Bibbia, ottenendo come risposta: "Tutta, fuorché il Cantico dei Cantici". Per ovvi motivi….Che tipo di fede era la sua, allora?Una fede ovvia, salda, semplice, non particolarmente originale. La problematicità sarebbe arrivata in seguito… Finché la mia fede era fatta di messa e osservanza di precetti, nessun problema. Anzi, le prediche e il clima diffuso mi avevano reso scrupoloso, un po’ come capitò al piccolo Giacomo Leopardi. La discussione arrivò dopo, tra la laurea in filosofia a Torino e il lavoro, giovanissimo, presso l’editrice Garzanti a Milano, e ancora il corso di perfezionamento in lingue orientali alla Cattolica (divenni anche assistente di ebraico di padre Rinaldi, ottimo biblista). Da allora, adottai una conoscenza scientifica della Bibbia che non ho più abbandonato.Come avvenne il recupero dell’identità ebraica?Con il tempo. Io non ero stato espulso, all’epoca delle leggi razziali, per via della mamma cattolica. Negli anni Cinquanta, quando studiavo l’ebraico e continuavo a recarmi a messa, ma si sviluppava in me un certo spirito critico. Poi, arrivò il Concilio. E, molto significativa per la mia storia, la Nostra aetate.Qual è, per lei, il futuro delle religioni?Sarebbe presuntuoso che parlassi delle altre religioni (certo, personalmente ho conosciuto musulmani straordinari e altri meno straordinari… e mi pare che l’islam stia vivendo una fase ancora molto, per dir così, preconciliare). Sul futuro del cristianesimo – premesso che ho più inclinazione verso Mosé che verso i profeti – sono ottimista. Confido nei cristiani comuni, soprattutto nei laici! E ritengo un dato assai positivo che nella riflessione teologica e nella letteratura religiosa sono oggi molto frequenti le comunicazione tra le varie confessioni (ad esempio, Bonhoeffer è forse più citato dai cattolici che dai luterani…). Molto difficile affrontare il futuro dell’ebraismo: meglio, degli ebraismi. Uno dei libri principali è, a mio parere, Essere fuori luogo, di Stefano Levi Della Torre… Certo, nell’ebraismo c’è una forza che può sorprendere, la genealogia, cui è affidata nelle famiglie la trasmissione della fede. L’ebraismo poggia sulla fedeltà agli antenati, teologicamente non sufficiente ma psicologicamente fondamentale».Vorrei chiudere con qualcosa su Gesù…Le racconto un apologo: a Dio il creato non è riuscito molto bene, tranne il mondo animale: e così sono entrati la morte, la povertà, l’angoscia, la disperazione, i dubbi. Allora Dio, a un certo punto, ha sentito il dovere di meritarsi la fede dell’uomo, facendo tutte le esperienze dell’uomo: morte, dubbi, angoscia… Questo l’ha fatto in Gesù. Certo, Gesù è il salvatore degli uomini, per i cristiani, ma è anche il salvatore di Dio Padre di fronte alla fede degli uomini.
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