giovedì 24 novembre 2016
Nell'ultima intervista rilasciata ad Avvenire il grande dantista morto mercoledì 23 novembre sottolinea che, «a dispetto di ogni pregiudizio, la capacità di ricezione dei gioavni è sorprendente»
“Dante Alighieri e il libro della Divina Commedia”, affresco di Domenico di Michelino conservato nel Duomo di S. Maria del Fiore a Firenze

“Dante Alighieri e il libro della Divina Commedia”, affresco di Domenico di Michelino conservato nel Duomo di S. Maria del Fiore a Firenze

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«No, Dante non è un poeta per tutti: è un poeta per ciascuno, per ognuno di noi». Parola di Vittorio Sermonti, che per molti italiani rimane il dantista di fiducia. Seicento letture pubbliche della Commedia in giro per il Paese, una fortunata edizione commentata – o, meglio raccontata– del poema che uscirà in versione definitiva a fine maggio nella Biblioteca Universale Rizzoli. «Avrà un tono ancora più colloquiale – precisa Sermonti –, ancora più rispettoso del silenzio del lettore».

Prego?

«È una delle scoperte che devo all'esperienza, meravigliosa, di parlare di Dante nelle piazze, nelle università, nelle chiese d'Italia. Ogni volta il silenzio del pubblico ha una qualità diversa, ed è a questa qualità che occorre adeguarsi».

Per raggiungere tutti?

«Direi piuttosto per stanare il poeta che si nasconde in ciascun ascoltatore e che Dante, con il senso profondo della sua musica, può portare allo scoperto. A trascinare è proprio la musica dei versi, ripeto, qualosa che si impone con una potenza incredibile e che mi porta ad affermare, all'inizio di ogni lettura, che il silenzio del pubblico non è meno importante delle parole che sto per pronunciare. Le forze in gioco, infatti, sono sempre tre: Dante, chi lo interpreta, chi lo ascolta. Un rapporto irrevocabile, che però si stabilisce necessariamente su base individuale. Per questo insisto sull'idea che, per commentare Dante, non ci si può rivolgere a tutti, in modo generico, ma a ciascuno, a ogni singola persona».

Anche correndo qualche rischio?

«Come no? La noia, per esempio. Sa, mia moglie [la scrittrice Ludovica Ripa di Meana, ndr] è la mia prima ascoltatrice e così, un giorno, mi sono ritrovato a esporle in anteprima la mia presentazione del XV canto del Purgatorio. Che è, ammettiamolo, abbastanza ostico. "Un po' noioso". mi fa lei. Ed ecco che mi viene da improvvisare un elogio della noia: senza noia non si impara niente, è uno strumento indispensabile per la vera conoscenza eccetera eccetera. Bene, quella tirata è entrata a far parte delle mie conversazioni. A ragion veduta, credo».

Ha mai provato la tentazione di attualizzare Dante?

«Per carità! Dante è eterno, non ha alcun bisogno di essere reso più attuale. Guai a renderlo tributario del nostro buonsenso o del nostro buon cuore. Stiamo parlando del più grande poeta mai vissuto, secondo soltanto a Omero. Ed è questa grandezza a interpellare ciascuno di noi, a chiamarci uno per uno nell'interezza e nell'unicità del nostro stare al mondo».

Che rapporto ha con i suoi ascoltatori?

«Beh, c'è ancora gente che mi ferma per strada e mi abbraccia... Nel pubblico al quale mi sono rivolto c'erano persone di ogni tipo, dal procuratore della Repubblica al benzinaio, dal vescovo a diversi calciatori. A colpirmi di più, però, sono sempre stati i giovani. Altro che distratti e omologati: i ragazzi conservano ancora il dono dell'unicità, sanno sorprendere con le loro domande, sono addirittura lusingati quando hanno l'impressione che si sopravvaluti la loro capacità di comprensione. Certo, bisogna rivolgersi a loro nel modo giusto, ma questo l'ho imparato molto tempo fa, durante la mia breve esperienza di insegnante».

Ma la scuola, si dice, non fa abbastanza per far apprezzare Dante.

«Vuole sapere come la penso? I professori di oggi sono autentici eroi. Anche e specialmente quando insistono a spiegare la Divina Commedia».

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