venerdì 7 agosto 2020
I casi di AI applicati alla scrittura si incagliano in trame prive di senso: questa non è solo assemblaggio di moduli narrativi ma si radica nell'esperienza dell'umano
Il computer scrittore: l'algoritmo e l'esperienza del corpo

Franck V. / Unsplash

COMMENTA E CONDIVIDI

La relazione tra scrittura e algoritmi offre uno spunto estremamente attuale sulla riflessione estetica, in particolare sui processi tanto investigati quanto misteriosi della composizione. Qualche settimana fa è uscito su “Mit Technology Review” un pezzo interessante di Stephen Marche, scrittore e saggista canadese, riguardante la sua esperienza di collaborazione con un potente programma chiamato SciFiQ, messo a punto da un professore inglese, Adam Hammond, in collaborazione con Julian Brooke, scienziato informatico. SciFiQ, connesso a internet, è in grado di identificare e processare le similitudini tra vari lavori letterari, identificandone i pattern, e crearne di propri. Il punto era verificare se SciFiQ fosse in grado di scrivere un racconto credibile, con una struttura autonoma e uno stile peculiare. Il risultato è stato Twinkle Twinkle, pubblicato su “Wired”.

A detta di Marche il racconto generato dagli algoritmi soddisfa tutte le richieste, nel contesto di una originalità piuttosto sorprendente. Le modalità della collaborazione tra Marche e l’algoritmo sono particolarmente interessanti e complesse, toccano temi cruciali della articolazione di una struttura linguistica risultante in una una storia.

Non sempre le osservazioni coincidono con ciò che ci aspettiamo. Ad esempio Marche osserva con sorpresa che la una trama non è il minore dei problemi per l’algoritmo, come sarebbe legittimo aspettarsi. Sorprendentemente il punto debole per l’algoritmo si innesta sul problema del senso. Per convenzione la struttura di una trama è tutto sommato accessibile, perché fatta di pattern narrativi che gli scrittori tendono a replicare. La AI è perfettamente in grado di riconoscere ed assemblare i frammenti nelle maniere più bizzarre. Lo stesso ritmo compositivo può essere uno di questi moduli replicabili.

Proprio in questo processo di ricombinazione, che è la sostanziale abilità compositiva della AI, processo orizzontale e meccanico, l’algoritmo trova il suo ostacolo. La trama non è semplicemente assemblaggio. Attiene al senso della storia che in fondo è mistero, una sorta di irriducibilità che nella sua relazione con il codice dell algoritmo genera una domanda senza risposta. Nella migliore delle ipotesi genera una risposta indefinita che si risolve in un cloud di opzioni. La parte affascinante è che l’algoritmo genera questo cloud di opzioni in modo totalmente originale, perché... privo di senso.

L’algoritmo, suo malgrado, ci obbliga a considerare la differenza sostanziale tra dimensioni il cui “salto” rappresenta la vera difficoltà. Due quesiti in particolare sono suggeriti dalle esperienze di Marche. Il primo tema è se l’algoritmo sostituirà alla fine lo scrittore. L’altro è se, non sostituendolo, sia in grado di fargli da suggeritore.

Per rispondere a entrambi voglio soffermarmi su un aspetto più generale e meno tecnico. Se non è un bene puramente edonistico, strumento per ingannare il tempo, rompicapo da risolvere, quindi in definitiva uno dei pattern in mezzo a cui la AI può egregiamente districarsi in combinazioni stravaganti, a chi interessa la scrittura nata come ricombinazione dell’esistente, più o meno attendibile e complessa? Noiosa e priva di senso già solo al pensiero. L’arte ha sostanza di riferimento nel patrimonio umano che riesce a veicolare, nel bene e nel male. La sua forza di contaminazione è direttamente proporzionale alla contiguità con l’esperienza sensibile.

Giochini come la scrittura automatica erano già stati inventati, sviscerati e abbandonati da movimenti come il surrealismo, molto prima del regno dell’algoritmo. La macchina, l’algoritmo, non ha nulla da comunicare. Per assurdo, se un giorno il robot fosse capace di coscienza, questa lo porterebbe all’autodistruzione. La coscienza di un robot, come la si potrebbe immaginare, porterebbe alla inevitabile conclusione di non avere un suo senso di esistere se non in relazione alla esecuzione di compiti eterodiretti. Un vero e proprio tuffo nell’abisso del suo stesso non senso.

La sostanza dell’arte, e questo è un cruccio fondamentale della contemporaneità, non sta nella quantità di ricombinazioni possibili. Risiede invece nella capacità di trasferire episodi di coscienza individuale dando loro una forma che riesce a fartele percepire attraverso una struttura “estetica” derivante dal cordone ombelicale del senso.

Leggere Twinkle Twinkle è certamente intrigante. Ma quando lo leggo e immagino un “cervello digitale”, prendo un grande abbaglio. Io stesso costruisco quella identità; l’esistenza di quella che potremmo allucinare come coscienza della AI, altro non è che lo specchio di noi, così complessi e dipendenti dall’essere nella carne, che ricostruiamo la presenza anche a partire da frammenti assolutamente privi di qualunque valenza di relazione nel loro articolarsi. Tutto ciò che può produrre la macchina prende corpo solo se sono io essere umano a darglielo. Perché corpo è il senso. Corpo è il dono. Non trasferibile, non intercambiabile. Corpo è la nostra definitiva e incedibile scommessa per l’eternità.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI