domenica 11 maggio 2014
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«Sia o no corretto, l’idea corrente del­la Grande Guerra deriva in primo luogo dalle immagini delle trincee in Francia e Belgio», scriveva quasi quarant’anni fa Paul Fussell nel li­bro La Grande Guerra e la memoria moderna. In trincea ci saranno an­che molti intellettuali. Nelle discussioni sono quasi tutti a­nimati da spirito di patriottismo. Per Giovanni Boine, nel 1914, la guerra era una scossa provvidenziale dalle como­dità borghesi e dall’egoismo personale. Per Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini era un mezzo eroico per risvegliare il Paese imbolsito, un modo per raggiungere rapidamente potenza e ricchezza. Per Filippo Tommaso Marinetti, nel­l’ Alcova d’acciaio, è la celebrazione di un enorme amples­so per possedere «l’amatissimo corpo della Femmina-Ma­dre- Patria», come scrive Mario Isnenghi in un classico del­la materia. Per i francesi diventava l’occasione di lavare l’onta di Sedan nel 1870; per i tedeschi la continuazione del sogno pangermanico: ma per Ernst Jünger, ferito ventuno volte durante il conflitto, la guerra fu la rivolta dei figli con­tro i loro genitori borghesi, come nota lo storico Eric Leed.Il patriottismo e il revanchismo erano retoriche nutrite dal­l’impulso nazionalistico. Ma tanti intellettuali che si ar­ruolarono erano spinti semplicemente dalla volontà di met­tere alla prova la loro umanità: sottrarsi a quella chiamata del destino avrebbe significato, domani, perdere ogni di­ritto di parola, col rimorso magari di essere vivo al posto di un altro. Lo scrive nell’Esame di coscienza Renato Serra,  che morì dopo appena due mesi di fronte il 20 luglio 1915: «Uno che espone il petto / prende il tuo posto in questo mo­mento / Ti scade l’ultima speranza di essere uomo / in que­sto momento». C’è un istante preciso, però, nel quale la guerra smette di essere oggetto di disquisizioni teoriche, nel quale l’intel­lettuale diventa uno come tanti. È l’istante della prova del fuoco in trincea. Esperienza raccontata da Ernst Jünger in Sturm nel 1923: una granata piove dal nulla e fa un morto e molti feriti. «La guerra aveva gettato di colpo la sua ma­schera di bonomia […] come l’apparizione di un fantasma in pieno mezzogiorno». Anche Robert Graves tenta di spie­gare le terribili e indescrivibili «impressioni auricolari» al fronte: «Le menti erano incrinate dal rombo continuo». Rombo d’artiglieria e frastuono di motori che ispireranno l’apocalittica commedia di Georges Bernard Shaw Casa cuoreinfranto, che illustra una sua celebre affermazione u­scitagli di bocca dopo aver decantato la bellezza dello spet­tacolo di uno Zeppelin abbattuto sul cielo di Londra: «Che mucchio di animali siamo». Guerra, in tedesco, è maschile: der Krieg. E Jünger ne di­chiara il senso per la sua generazione: «La guerra, Padre di tutte le cose, è anche nostro padre. Esso ci ha battuto, for­giato e temprato in ciò che ora siamo». La guerra, infatti, sgretola anche i muri più robusti dello scetticismo, come accadde ad Arthur Conan Doyle dopo aver perduto al fron­te un fratello e un figlio. A guerra finita molti organizzava­no sedute spiritiche per mettersi in contatto coi loro cari morti al fronte. Anche Conan Doyle nel 1919 partecipò a una seduta dove un medium gallese prestò se stesso alla voce di uno spirito indiano di nome Falco Nero. Fu un e­vento così traumatico, quella guerra, che molti non riusci­vano a elaborarne il lutto. Ma questa idea dei morti che ritornano non è soltanto del­lo spiritismo. Blaise Cendrars, che al fronte perse un brac­cio nel 1915, partecipò da attore e assistente regista al film di Abel Gance J’accuse, le cui riprese iniziarono nel 1918 mentre la guerra ancora infuriava. Il film inizia in un cimi­tero di guerra, dalla terra si alzano ombre, sono i soldati ca­duti, avvolti in bende, zoppicanti, scheletriti e decompo-­sti, che s’incamminano verso i villaggi d’origine per verifi­care se il sacrificio delle loro vite non sia stato vano. Il mon­do che trovano è meschino, pieno di egoismi. Ma il loro a­spetto è così inquietante che immediatamente la gente dei villaggi si ravvede. A quel punto i morti tornano nelle loro tombe. Il film aveva come comparse soldati veri, presi dal fronte con l’autorizzazione dell’esercito francese, e a fine lavorazione molti di loro erano morti davvero: come ha giustamente osservato Jay Winter, «rappresentazione e realtà erano venute a coincidere». Tra le comparse del film c’era anche il poeta Guillaume Apollinaire, che morì ne­gli ultimi giorni di guerra vittima dell’influenza spa­gnola che dilagava in Europa. La scena del ritorno dei morti coglie nel segno e, conclude Winter, è «capace di trasformare il melodramma in mito». Debouts, les morts! “In piedi i morti”: è il titolo di u­na delle acqueforti di Georges Rouault nel Misere­re: si vede la morte vestita da soldato che incita i soldati caduti a rialzarsi per continuare a combat­tere e mietere altre vite. L’espressione venne uti­lizzata da Maurice Barres nel 1915 riprendendo un aneddoto raccontato da Vincent Péricard, do­ve i soldati francesi in una trincea vengono deci­mati dai tedeschi armati fino ai denti. In quell’i­stante un soldato francese si getta su un sacco di granate e comincia a lanciarle gridando «In piedi i morti!». A quell’ordine tre suoi compagni si rial­zano e ingaggiano di nuovo la lotta e alla fine han­no il sopravvento sui tedeschi. «Quella frase subli­me aveva resuscitato i morti», conclude Barres. Jean Norton Cru, soldato e scrittore, nel 1929 pubblicò un libro, Témoins (“Testimoni”), nel quale svelò come quella esclamazione non fosse affatto nuova, già nel 1873 si trova in una canzone da caffè-concerto, e appar­teneva anche al gergo militare: la usava, per esempio, il capocamerata per svegliare i suoi commilitoni al mattino. Fa­cendo scalpore nell’opinione pubblica e attirandosi l’osti­lità del governo, Cru con quel libro sfaterà una quantità di mitologie belliche su cui lo Stato maggiore dell’esercito francese aveva costruito la sua retorica della vittoria. Di­scorso ripreso, l’anno dopo, anche da Gabriel Chevallier nel suo romanzo La paura. Retorica che, in modo grottesco e con le solite pantomime autobiogra­fiche, fa breccia anche in Louis-Fer­dinand Céline quando scrive Viaggio al termine della notte. Ma questa retorica del fuoco, del fer­ro, del sangue e della macchina che schiaccia l’uomo, portava con se un’insidia maggiore. Lo intuì Pierre-Maurice Masson, giovane intellet­tuale morto in trincea nel 1916, ri­cordato da Miguel de Unamuno nel 1919 in una corrispondenza per il giornale argentino La Nación: «Sot­trarre alla morte il suo significato – scrive Masson in una lettera dal fron­te – è uno dei più grandi pericoli del­la guerra». Perché solo quando torna la pace la morte recupera quel sen­so tragico che sembra aver perduto sui campi di battaglia. E Unamuno ricordava che proprio in trincea il medico Marcel Faure-Beaulieu ave­va tradotto la prima edizione fran­cese de Il sentimento tragico della vita.Con tono shakespeariano, il fustigatore  Karl Kraus si era chiesto se quella guerra fosse «una redenzione o soltanto una fine?». Non era affatto compassionevole la sua domanda, aveva invece quel senso apocalittico che poi con­fluirà nel capolavoro Gli ultimi giorni dell’umanità. Ed è sul crinale di questa apocalittica che gli orizzonti di alcuni in­tellettuali cattolici si dividono: accade, per esempio, a Geor­ges Rouault rispetto al suo maestro spirituale Léon Bloy. La “teologia della rassegnazione”, ovvero la fede ostinata di Rouault nella Resurrezione, è proprio resistenza alla ten­tazione apocalittica. Realizzato tra il 1916 e il 1928, quel ci­clo di cento incisioni doveva intitolarsi Guerre et Miserere, ma alla fine Rouault preferì soltanto Miserere. L’impulso i­niziale da cui parte questo capola­voro, dunque, è una meditazione sui “disastri della guerra”, che si apre al­la religiosità assumendo Cristo co­me modello di tutte le vittime del massacro. L’abbé Morel scrisse che fra i tanti monumenti fioriti nelle piazze per commemorare i caduti non ne conosceva nessuno che a­vesse «l’elevatezza, l’intimità e, dun­que l’efficacia e la forza spirituale conseguiti da Rouault in quest’ope­ra »: si trattava di ricostruire «ciò che la guerra aveva distrutto nell’uomo». Un grande romanziere francese, Pierre Mac Orlan,  inviato di guerra sul territorio tedesco verso la fine del conflitto, nel libro La fin (1919) rac­conta il suo viaggio da Coblenza a Francoforte. Per tanti la Germania «ha rappresentato l’organizzazione nella sua perfezione, e la Francia, be­ninteso, il suo opposto». Idea che un altro scrittore francese, Jacques Rivière – amico fraterno di Alain Fournier (morto al fronte nel settembre 1914, due settimane dopo Charles Péguy ) –, nei diari di prigionia ri­fusi nel 1918 in L’Allemand: souvenirs et réflexions d’un pri­sonnier de guerre, contesta: «Ho visto troppo da vicino l’im­perizia, la mancanza di logica, l’affollamento e l’inattitu­dine dei tedeschi alle operazioni più elementari di gestio­ne e distribuzione per farmi illusioni sulla loro competen­za in fatto di organizzazione». Ma poi confessa: «Ho men­tito fino a qui: la Germania ha un dono, una qualità in­nata: la volontà! Il lavoro non è per i tedeschi quella pu­nizione che è per noi […]. Essi cadono nel lavoro co­me altri nel peccato […]. Il lavoro e la forza di volontà li portano a una sorta di creazione ex nihilo. Trag­gono tutto ciò che vogliono dal niente». Nel suo viaggio Mac Orlan segue i francesi che en­trano a Magonza: «La maggior parte degli abitanti assomiglia a topi, topi glabri ma simpatici, spes­so di una intelligenza tagliente. Agitati dalle que­stioni elettorali questi topi non veicolano bacil­li di bolscevismo». Ma il virus bolscevico, in realtà, è già inoculato. Ormai a guerra finita, a Francoforte, «trionfo del piacere in tutte le for­me », dove i ricchi danzano sfacciatamente nel lusso, Mac Orlan assiste a una rivolta: una don­na che gestisce una casa del gioco d’azzardo vie­ne arrestata ed ecco che la folla inferocita si sca­glia contro la polizia: per alcuni è il pretesto per incitare la folla alla rivoluzione. Bilancio finale: undici marinai uccisi, diciotto rivoluzionari fuci­lati, settecento arresti. Il vento che porta altri catti­vi auspici per l’umanità già soffia sulle ceneri anco­ra calde dell’“inutile strage”, tanto inutile che se ne farà una ancora più grande appena vent’anni dopo.
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