sabato 26 marzo 2016
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MADRID Ingres era un uomo fiero, un artista che si sentiva erede dell’antica Grecia e dei classici, senza essere però un imitatore del passato. Difficile confondere un quadro di Ingres con qualcosa che sia anche lontanamente opera di un greco antico o oppure di un artista del Rinascimento. La differenza, forse, si può riassumere così: Ingres non inseguiva lo stile antichista degli accademici, la sua idea di antichità era piuttosto simile a una ricerca dell’arcaico, di ciò che genera il classico prima che il classico sia completamente formato: una questione che ha pesato molto negli equivoci sul postmoderno, che non è stato né antichista né arcaizzante, si tratta semmai di un eclettismo molto cerebrale, una specie di clonazione da laboratorio dove il genetista a un certo punto si lascia prendere la mano dal gioco producendo una sorta di burattino grottesco. L’orgoglio di Ingres era anche nella sua volontà di porsi come artista che, per citare il titolo di un celebre libro di Rosario Assunto, scommette e crede nell’«antichità come futuro». Basta osservare la copia dell’Autoritratto giovanile conservato al Museo Condé esposta ancora per qualche giorno al Prado di Madrid, per capire quanto fosse dominato da un sentimento di sfida che lo contrapponeva su vari fronti: all’arte accademica, fondata su una errata comprensione della mimesis classica, ma anche a quel romanticismo del colore che avrà in Delacroix il suo campione, spalleggiato dal mentore Baudelaire. Sarà poi Cocteau a sostenere la discendenza del cubismo da Ingres in polemica quella concezione “moderna” e “rivoluzionaria” dell’arte che poneva le sue origini appunto in Delacroix secondo l’interpretazione di Baudelaire (espressione della «fatalità del genio», scrisse). Ma soltanto di recente la storiografia ha cominciato a scoprire il riferimento nel grande pittore romantico al mito e ai classici e in queste settimane una mostra a Parigi pone in modo esplicito la questione. La querelle des anciens et des modernes in Ingres è opposta alla disputa fra accademia e modernità. L’aveva capito Jean Cassou già nel 1934, quando scrisse per “Gazette des Beaux-Arts” un saggio estremamente acuto intitolato Ingres et ses contradictions. Ingres si era prestissimo incamminato sulle strade dell’antica Grecia: nel 1801, ventunenne, aveva ottenuto il Prix de Rome per il dipinto Achille e i messaggeri di Agamennoneche impressionò John Flaxman. Venendo a Parigi nel 1802, il grande scultore neoclassico inglese dichiarò di non aver visto nulla di più bello. Flaxman era, come scrisse Cassou, alla ricerca della «Grecia virginale, archeologica, a un tempo puritana e voluttuosa» e soggiornando a Roma tra il 1787 e il 1794 per formarsi sulle vestigia dell’antico aveva steso vari cicli di disegni dedicati alle opere classiche di Esiodo e ai due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea (ma anche uno stupendo sulle tre Cantiche dantesche). Il piglio “archeologico” era tale che Flaxman, rientrato in Gran Bretagna, fece anche una ricostruzione del- lo scudo di Achille basandosi su Omero. C’è poi da dire che sul versante inglese Ingres sembra guardare anche Blake, pur senza adeguarsi alla sua allucinata visionarietà, come si può avvertire nel grande quadro del Sogno di Ossian del 1813. D’altra parte, il segno grafico inconfondibile di Flaxman era la decantazione stessa della forma pura: ma l’antico, nelle sue opere, è quasi l’anticipazione di una tragedia portata in opera lirica; si spinge ben oltre l’imitazione dell’antico e trova uno stile che molti aspetti anticipa i simbolisti ma anche forme di semplificazione già postmoderne. Mentre Flaxman disegnava, quasi in contemporanea Tommaso Piroli incideva gli stessi cicli al bulino (fu un’impresa meravigliosa, poi rinnovata a più ampia diffusione da Reveil e da altri in formati di vario tipo). Il riferimento di Cassou a Flaxman è funzionale al paradigma delle “contraddizioni” di Ingres: Flaxman va a Roma ma non guarda i romani, attraverso loro vuole risalire ai greci. È quello che fa anche Ingres, a Roma dal 1806. David rappresentava la Francia Rivoluzionaria e poi quella imperiale, Ingres rimaneva invece un “conservatore”, uno che sentiva l’importanza di una continuità col passato, pur nella differenza dettata dal fatto che siamo uomini del nostro tempo (quindi, né rivolti all’indietro né costretti in avanti, che è un po’ il dilemma che Benjamin tenta di rappresentare nella sua lettura dell’Angelus novus di Klee). La mostra del Prado, straordinaria per il numero di opere e per la scelta che riesce a farci entrare nel genio di Ingres (e questo è singolare se si pensa che una mostra così troverebbe la sua naturale collocazione a Parigi); ci aiuta a capirlo, ma non ad amarlo. Ingres non si può amare, si deve ammirare, un po’ perturbati da quel suo segno che “taglia” per così dire la forme nella carta; anzi taglia i corpi e ne rende, come incidesse un bassorilievo, la larva: il disegno di Mme Ingres incinta, ritratti di famiglia come quello dei Forestier, o singoli come quelli delle nobildonne Destouches e Brazier, ma anche quelli dei coniugi Bertin (del marito è esposto l’impressionante dipinto del Louvre, uno dei capolavori della ritrat- tistica europea moderna), o, infine, l’Autoritrattoormai più che cinquantenne, ci mostrano questa volontà di scolpire sulla carta – una vaga anticipazione dei papiers découpés di Matisse, ma in puro bianco e nero? –, del “disegno come scultura”. Roger de Piles, antesignano della polemica di Baudelaire su disegno e pittura, nel Seicento, polemizzando su Poussin, scrisse che aveva ridotto la carne alla pietra. Il disegno, diceva De Piles, è un’arte cerebrale, quella che si sposa meglio con la scultura. Ingres sembra prenderlo in parola; in realtà, il suo stile oscilla (si contraddice!), è plastico e sensuale, e lo si vede in uno splendido studio di odalisca propedeutico al celebre Bagno turco, dove il sentimento della carne sembra prendere il sopravvento sulla marmorea definizione che si vedrà nel quadro finito. Con una differenza anche psicologica: nello studio l’odalisca ha un volto serio e malinconico, mentre nel quadro finito ha l’aspetto un po’ ebete della donnina che si presta a compiacere i desideri del padrone dell’harem. A salvare Ingres dall’accademismo fu Rafper faello (e il Rinascimento italiano), perché l’imitazione degli antichi in quell’epoca non fu pedissequa adesione a una tradizione formale. E Ingres non cercò mai questa specie di inumazione che, al contrario e forse insospettatamente, si avverte come un velo, una brina corrosiva, nella ritrattistica di David. Col gelo del suo bisturi grafico Ingres non è orientato all’imbalsamazione, ma alla precisione: è un chirurgo che opera, diremmo oggi, con le nanotecnologie, nel dettaglio infinitamente piccolo; e non sbaglia, quasi mai. Perché ciò che insegue non è la specularità col referente, ma una idea di bellezza che, sul presupposto di Raffaello, è il distillato di quella perfezione che la natura non conosce, se non grazie all’uomo. Sappiamo bene quale fosse il tasso di carnalità dell’urbinate, anche se poi tradotta in una sorta di sublimazione che innesca il transfer fra bellezza umana e “carne gloriosa” (e ricordiamoci della polemica dei pensatori russi verso la sensualità dell’arte rinascimentale italiana). Proprio quando si muove sul versante mistico e religioso la maestria di Ingres cede a un perfido retropensiero pagano: come La vergine in adorazione dell’Ostiadel 1854 o nelGesù fra i dottori del 1862, una rivisitazione di Poussin (il quale aveva trasformato il cristianesimo in una sorta di visione mentale). Il punto di scarto, che rende interessante ancora oggi la lettura di Cassou è quando dice che Ingres guarda verso l’Asia, a Oriente, non soltanto quello arabo, ma quello cinese e indiano. È un mistificatore – dice Cassou, con esplicita ammirazione: «come tutti i grandi artisti» – che ama le «divagazioni nella geografia del gusto », quelle che poi porteranno in auge, tra fine Ottocento e inizio Novecento, l’art négre e le culture polinesiane e melanesiane, ma anche certa arte naïve europea (il Doganier Rousseau, per esempio). Tema molto suggestivo, peraltro per nulla sviscerato da questa mostra madrilena che tende, forse un po’ troppo, a uniformarsi allo schema del grande pittore classico, sebbene eretico rispetto al gusto del suo tempo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Madrid, Museo del Prado INGRES Fino al 1 aprile Madrid Al Prado ancora per pochi giorni una straordinaria retrospettiva del pittore francese, che si ispirò ai Greci e a Raffaello, senza adeguarsi a un’idea accademica ma, anzi, spingendosi fino alle latitudini artistiche di Cina e India Qui a lato: Ingres, «Studio per il quadro di Gesù fra i dottori» (1866) e, a sinistra «Studio di piedi per l’Apoteosi di Omero» (1826) Qui sotto, «Ritratto del giovane Ingres» di Mme Héquet, copia dell’Autoritratto del Museo Condé; a destra «Ritratto di Louis-François Bertin» (1832)
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