venerdì 25 aprile 2014
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Uscito psichicamente a pezzi dall’e­roica impresa di dipingere La zatte­ra della Medusa, Géricault emigrò per un paio d’anni a Londra, dove il suo enorme quadro venne esposto con grande successo: oltre quaran­tamila visitatori, che gli valsero an­che un discreto gruzzolo coi proventi maturati sui biglietti pagati (pare, una cifra superiore a quella che gli avrebbe dato Parigi se avesse voluto ven­dere il quadro). In quel soggiorno londinese Gé­ricault realizzò alcuni quadri, numerosi disegni e anche una serie di litografie dove protagonista non è la borghesia mercantile britannica, ma il popolo con le sue miserie: quando le guardi ci senti l’odore putrido delle strade di sobborgo e ti pare di vedere in anticipo la Londra dickensiana (ma con meno ironia).

La mostra che la Fondazione Roma presenta in questi giorni per celebrare la grande pittura in­glese, da Hogarth a Turner, sembra sorvolare leg­gera sopra questo universo della «società margi­nale », per dare invece spazio alla rappresentazio­ne di un ideale pittorico che i curatori della mo­stra, Carolina Brook e Valter Curzi, nel catalogo e­dito da Skira definiscono così: «La sfida per le ar­ti contemporanee era quella di elaborare un’ico­nografia nazionale in grado di esprimere quei va­lori di civiltà e libertà che il paese avvertiva come condizioni essenziali della propria storia». In ef­fetti, se si pensa a che cosa fosse stato il Globe, il teatro voluto da William Shakespeare per rappre­sentare le proprie opere, ci si trova facilmente d’accordo nel dire che il pubblico cui si rivolgeva il Bardo era “popolare” sia nell’assortimento so­ciale sia nei modi: mangiavano e parlavano tra lo­ro, gli spettatori, pulendosi sui vestiti le mani bi­sunte, mentre in scena si recitavano tragedie e commedie, creando una sorta di interazione spa­ziale e sonora tra reale e finzione.

L’iconografia nazionale che la pittura inglese cerca di fondare oltre un secolo dopo Shakespeare non disdegna le classi plebee, ma ne marginalizza la portata so­ciale costringendola dentro una sorta di “conve­nienza” formale, di decoro o di controllo razio­nale, che si distacca molto sia dall’universo rap­presentato da Géricault sia da quello che prende vita, con effetti di esilarante comicità, in Dickens. Le vedute di Canaletto, a metà Settecento, porta­no Oltremanica il linguaggio della chiarità atmo­sferica, con effetti di cristallina e razionale tra­sparenza, che ritroviamo, in una luce però più tor­bida, cioè meno idealizzata, anche nelle vedute coeve di Samuel Scott; ma il lustrascarpe o la lat­taia di Paul Sandby sono ancora rappresentazio­ni dei mestieri quasi prive di pathos e mancano di quell’umbratile realismo con cui Géricault guar­da il mondo dei povericristi cercando di tenere insieme verità e pietas. Senza alcuna inclinazio­ne ideologica: negli stessi anni dipinge il Derby di Epsom, singolare raffigurazione di una corsa e­questre dove i cavalli al galoppo sembrano quasi sospesi nell’aria scolpiti su uno sfondo che, im­maginando di poter escludere dal campo visivo cavalli e cavalieri, potrebbe fungere da simbolico ponte tra Constable e Turner. La qualità dell’aria e della luce: si sente qui una dipendenza dei pit­tori inglesi dalla pittura italiana, francese e olan­dese; nelle vedute di Marlow, per esempio, si co­glie una sensibilità per i poteri metamorfici della luce che scolpisce e diluisce allo stesso tempo le forme in una sapiente alternanza con l’ombra. Di ben altro timbro, invece, l’interno della Banca d’Inghilterra di Joseph Gandy e Antonio van As­sen, dove l’imponenza e la solidità architettonica soverchia le figure umane dichiarando aperta­mente la natura di quel luogo come tempio di u­na nuova religione laica, il denaro: lo spazio ap­pare come sintesi straordinaria di vuoto e di luce che evoca questa nuova divinità capace dell’a­strazione più assoluta.

La sezione intitolata al “nuovo mondo” unisce l’a­pertura al sapere nel solco dell’illuminismo, la vo­lontà dell’artista di farsi interprete di una storia na­zionale come sacerdote che ne detta governa la liturgia, l’imporsi della visione imperiale e colo­niale con un forte contrasto fra la gravità, anche materiale, di una ritrattistica che “identifica” il personaggio, lo rende una presenza che aggetta dallo spazio, come nei quadri di Zoffany, Gain­sborough e Reynolds, esaltandone l’individualità nel riconoscimento del ruolo sociale che riveste; ma, dall’altro, la mostra ci propone visioni idilliache, esotiche come la Tahiti di William Hodges, o gli immoti paesaggi di Francis Swain Ward. Natu­ralmente, per entrare in società, nei suoi vizi e nei suoi riti, ci si deve rivolgere alle stampe di Hogarth e Cook, o ai ritratti di gruppo che svelano l’auto­considerazione dei notabili inglesi dell’epoca, che camuffano la ruvidità delle loro origini celtiche e nordiche col decoro delle buone maniere. Nes­suno di loro, però, riuscirà mai a cancellare del tutto la durezza della scorza umana che nell’eti­ca della libertà rende improbabile ogni sospetto di tenerezza (tutto questo è riassunto nella pira­midale composizione della Famiglia Sharp di­pinta da Zoffany).

In questa parata di temperamenti tutti ricondu­cibili a un ceppo umano, il povero Füssli e le sue saghe mitiche e stregonesche, sembra uno che abbia sbagliato party; manca, peraltro, William Blake, e manca tutto quel discorso sul sublime che è tipicamente inglese e più si riallaccia alla vena shakespeariana.  In una progressione che culmina nel paesaggio, ma senza un vero snodo chiarificatore, si appro­da a Constable e Turner. Quest’ultima sezione la­scia un po’ insoddisfatti: non c’è abbastanza né dell’uno né dell’altro per trarre le conclusioni “ver­so la modernità”. Nella nube materica Turner in­goierà e dissolverà quel principio stesso di iden­tità nazionale inglese, fondato su due secoli di im­perialismo britannico, presagendone, come infor­male cancellazione dell’individualità (alla base del liberalismo britannico), un altro imperialismo, più subdolo e attuale: quello della globalizzazio­ne. Turner questo non poteva saperlo, ne ha av­vertito tutt’al più il brivido, quello della modernità che rivolge la propria hybris contro se stessa. Ar­gomento che, di contrappunto, riappare poi nel­la pittura di Bacon e di Freud, come ritorno a u­na ritrattistica “post imperialista”. Roma, Palazzo Sciarra HOGARTH REYNOLDS TURNER Pittura inglese verso la modernità Fino al 20 luglio

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