domenica 8 novembre 2009
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«Hich habe fertig...». Ecco l’unica vera gaffe di Giovanni Trapattoni, l’aver pronunciato inavvertitamente nel leggendario apologo contro il giocatore tedesco Strunz: quel «sono finito», al posto di «ho finito». A 70 anni infatti il Trap da Cusano Milanino “fischia” più forte del solito, è in forma smagliante e pronto a sferrare l’ultimo assalto mondiale nella doppia sfida-spareggio (14-18 novembre) che vedrà la sua Irlanda opposta alla Francia dell’astrologo e “antitalico” Domenech. Uno scontro tra il più noto perdente di successo, il ct francese, contro l’allenatore dei record, il Trap: 10 titoli vinti con squadre di club in quattro Paesi (Italia, Germania, Portogallo e Austria), l’unico ad aver conquistato tutte le competizioni Uefa.Uno che ha vinto tutto e che sta in campo da più di mezzo secolo, come fa a non essere ancora stanco di questo calcio?«Come potrei? Il calcio a quel ragazzino di paese che giocava a piedi scalzi ha aperto un’autostrada verso il mondo intero. Nel ’54 a un torneo internazionale con il Milan, a Strasburgo per la prima volta vidi le cicogne. Il mio stupore, la continua voglia di conoscere e di confrontarmi con altre culture parte da lì e devo dire grazie a un pallone».Dentro quella sfera di cuoio cosa ha trovato?«Il privilegio e la fortuna di appartenere a una categoria lontana da tanti problemi. Inseguendo quel pallone ho visto il nostro Paese crescere e prosperare. La tristezza è stata trovarsi a giocare in stadi in cui appena uscivi fuori toccavi con mano la miseria. Succedeva fino a ieri, appena dopo il confine con l’Est d’Europa. Ma lo strazio e il senso di impotenza l’ho provato dinanzi alla fame e la sete dell’Africa...».Una sensibilità la sua che nasce da una profonda cultura sportiva.«Il mio primo allenatore al Milan è stato Cina Bonizzoni, poi ho avuto Gipo Viani. Questi erano educatori prima che dei tecnici. Ci lasciavano sotto la guida di un pedagogo, Bottani, con il quale andavamo a visitare la pinacoteca di Brera. C’era più tempo per vivere e stare a contatto con il tessuto sociale, oggi i giocatori sono blindati al resto della società, pressati dal dover apparire a tutti costi solo per ragioni di sponsor».Più soldi, più veline, meno cultura, questo è il ritratto del calciatore moderno?«In parte sì, ma ci sono anche le eccezioni per fortuna. Per questo consiglio sempre di studiare, di darsi un’alternativa oltre al calcio, di imparare altre lingue. Io forse non ne parlerò bene nessuna, ma ovunque sono stato mi sono fatto capire, con i gesti, con la mimica, con il mio fischio. E il maggior riconoscimento è stato quello di venire apprezzato dai giocatori come uomo prima che per le vittorie che abbiamo ottenuto».Che cosa rappresenta per lei l’Irlanda, oltre alla nazionale che allena?«Un Paese che mi ha permesso di tornare mentalmente a piedi scalzi, di rivedere in parte quell’Italia ancora sana di quando ero ragazzo. Gli irlandesi mettono ancora al primo posto le relazioni umane e poi mi affascina la loro cultura volta alla promozione e alla crescita dei giovani che è uno dei punti di forza anche della federcalcio di Dublino».In Irlanda è molto forte anche la radice cattolica, quella che ha temprato pure la sua personalità.«Io dico sempre che sulla mia spalla viaggiano degli angeli custodi: sono i miei genitori che da lassù mi guidano verso gli incontri con le persone giuste. A tenermi lontano dal male ci pensa l’ampollina di acquasanta che mi fornisce mia sorella, suor Romilde. La porto sempre con me in panchina. Qualcuno ci ha riso su, ma chi scherza con la fede non è un uomo intelligente».Uno molto intelligente e suo ex allievo prediletto, Michel Platini, è diventato il capo della Uefa. C’era da aspettarselo?«Platini è un leader nato, un uomo di molti fatti e poche parole, come me. È per quello che quando in ritiro andavo in camera sua per il ripasso della tattica faceva finta di dormire... Gran parte delle battaglie che sta facendo con la Uefa mi trovano d’accordo, a partire dalla lotta alla “tratta” dei giovani talenti che arrivano in Europa dai Paesi più svantaggiati».Il buon Michel però vuole che i ct della nazionali siano “indigeni” e non stranieri.«Per quello che riguarda me e Capello, senza presunzione, penso che siamo la dimostrazione che il tecnico straniero, in questo caso italiano, ha qualcosa in più rispetto agli altri. Abbiamo una maggior cura del dettaglio e siamo stati forgiati alla convivenza con una critica forte e attenta che quando è costruttiva ci aiuta a migliorarci continuamente».Siamo anche il Paese di Calciopoli e degli scandali del doping...«Siamo peccatori, ma anche penitenti che però sanno ripulire in fretta il marcio. Sul doping i controlli più severi e le squalifiche penso che abbiano scoraggiato molto, ma tenere alta l’attenzione è un dovere assoluto per preservare la salute degli atleti e di tutto il movimento sportivo. In Italia comunque il calcio è passione e cultura della costruzione e specie nei momenti di maggiore difficoltà sappiamo sempre tirar fuori un ragno da un buco».C’è una “tarantola” secondo Capello che sembra inestirpabile, gli ultrà che tengono sotto scacco tutti i club.«Mi è capitato di dover chiedere il permesso ai tifosi imbufaliti per far allenare la squadra e queste sono cose che accadono solo da noi. E per fortuna che ho vinto tanto, altrimenti quante volte avrei dovuto subire quelle scene? Quello della violenza degli ultrà è un serpente con la coda in bocca, servono regole più trasparenti eliminarlo».L’arbitro Moreno ai Mondiali del 2002 ha dimostrato che la malafede e la corruzione spesso falsano il gioco ...«Il calcio, così come la Formula 1 sono soggette al mistero e al sospetto. Dove c’è tanto business, le ragioni del portafoglio prevalgono su quelle della coscienza».Da noi spesso invade il campo anche la politica, lei diventò ct della Nazionale dopo che Berlusconi con le sue critiche fece dimettere Dino Zoff...«Telefonai a Dino prima di accettare di prendere il suo posto, per capire le ragioni di quella sua decisione. In quel caso la critica era stata davvero forte con Zoff, ma io negli anni ho coniato uno slogan: impara a scegliere gli interlocutori seri e che sanno analizzare i fatti e le persone con obiettività e onestà intellettuale. Così sto alla larga da chi si crede un superuomo e ti bastona solo per farsi pubblicità in tv».Con Lippi vi siete chiariti sulla storia della “seta”...«Finalmente ho l’occasione di precisare. Io ho solo detto che “chi ha la seta fa una cravatta di seta, chi ha il cotone la fa di cotone”. Non era un giudizio sulla qualità più pregiata o meno della mia e della sua squadra, anche perché ho riconosciuto che a Dublino l’Italia di Lippi aveva giocato meglio dell’Irlanda. Solite strumentalizzazioni per mettermi contro Lippi, solo per il fatto che anche io ho allenato la Nazionale e fatto debuttare 70 giocatori, molti dei quali sono ancora in azzurro...».Tutti criticano Lippi per la bocciatura a Cassano, ma anche lei ai Mondiali di Giappone e Corea lasciò Roberto Baggio a casa.«Baggio l’ho portato a colazione, abbiamo parlato, l’ho aspettato dopo l’infortunio, ma per me non era fisicamente pronto per quel Mondiale. Dunque, solo ragioni tecniche che di sicuro cozzarono con quelle commerciali di chi aveva già fatto stampare 20 milioni di copie del libro di Baggio in giapponese...».C’è in circolazione un altro Trap?«Non dovrei fare il suo nome, perché poi subito lo etichettano come “difensivista” o peggio ancora come ”vice-Trapattoni”, però dato che lo stimo troppo lo faccio: Cesare Prandelli. Credo che mi somigli tanto e vorrei che proseguisse su questa strada arrivando ancora più in alto. Se lo merita». E lei dopo aver ottenuto tutto, dove vuole arrivare ancora?«Non conta quello che ho ottenuto fino a ieri, ma quello che potrò fare domani. A 70 anni so che ogni giorno posso ancora imparare e dagli ambienti più lontani dal mio, come mi è successo giorni fa in un’Accademia militare».Qual è il suo elisir di eterna giovinezza?«Il segreto, mi dicevano Gipo Viani e poi Gianni Agnelli, è quello di stare sempre a contatto con i giovani e di seguire l’evoluzione delle generazioni con occhi attenti, senza ergersi a censori, ma cercando di capire. Oggi dobbiamo far riflettere i giovani sulle difficoltà della vita, ma stando al loro passo e cercando di ragionare con il loro linguaggio, fornendogli esempi che fanno parte della contemporaneità. Solo così diventeranno adulti».E il Trap ha deciso cosa farà da grande?«Vorrei mettere a frutto l’esperienza di tutti questi anni, girare ancora il mondo per raccontare quello che è stato il mio percorso umano e calcistico. Vorrei lasciare una traccia che resti, per sempre».
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