domenica 10 marzo 2013
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La conformazione dell’arcipelago indonesiano, esteso su quasi due milioni di chilometri quadrati e frammentato in diciassettemila isole, decine di etnie e centinaia di lingue e dialetti, ha fatto della “grande rete” uno strumento importante di comunicazione e di integrazione nazionale. Allo stesso modo rappresenta per il cristianesimo locale, che raccoglie circa l’otto per cento della popolazione, uno strumento d’informazione e di educazione che si affianca a una presenza nei mass media stampati, televisivi e radiofonici, a una partecipazione attiva al dibattito politico, sociale e culturale. Su internet si muove però anche l’islamismo radicale duramente represso nelle sue espressioni estremiste e terroristiche dalle autorità, indebolito da centinaia di arresti, condanne al carcere e alla pena capitale dopo i tragici attentati di Bali del 12 ottobre 2002. Un’azione, quella del governo e delle forze di sicurezza, che cerca insieme di disinnescare il rischio di conflitto interreligioso, di sovvertimento del potere civile e di fuga dei cooperanti e investitori stranieri di cui il Paese ha bisogno. Un impegno che fatica però a evitare la pressione crescente sulle minoranze religiose. Gli islamisti fanno propaganda contro una presunta “cristianizzazione” dell’arcipelago (accusata sia di minare le fondamenta della nazione di 240 milioni di abitanti, sia di mirare alla conversione dei musulmani, che sono l’87 per cento) come giustificazione per mobilitazioni di massa e attacchi da parte di facinorosi. Il sobborgo di Bekasi, presso la capitale Giacarta è diventato dal 2008 il centro della contesa tra Chiese cristiane e gruppi radicali islamici riguardo a edifici religiosi per i quali vengono spesso concessi permessi di costruzione, ma non quelli di apertura al culto. Una necessità per sette e denominazioni che crescono in adepti, una minaccia per chi vede nell’islam la sola fede possibile nell’arcipelago. Tuttavia, dalle strade di Bekasi, lo scontro si è portato da tempo anche sulle strade “virtuali” di internet, sempre però aspro e pretestuoso. Con gli stessi protagonisti. Alcuni, come il Consiglio indonesiano per la diffusione dell’islam e il Movimento degli studenti islamici, attivi da lungo tempo con un forte accento anticristiano. Altri, come il Fronte dei difensori dell’islam, particolarmente impegnati contro l’apostasia. Infine, un ruolo di supporto hanno organizzazioni semi-legali o del tutto illegali almeno per le loro affiliazioni militanti, di ispirazione salafita e jihadista, come pure la Jemaah Ansharut Tauhid, l’organizzazione fondata nel 2008 da Abu Bakar Ba’asyir, ora in carcere per il ruolo d’ispiratore dei fatti di Bali ma ancora primo ispiratore della Jamaah Islamiah, movimento ispirato da al-Qaeda. Il videoclip Save Maryam (“Salva Mariam”), cliccato decine di migliaia di volte dalla sua apparizione su YouTube, è centrale oggi nella strategia radicale. La vicenda di una delicata quattordicenne, “circuita” dalla propaganda cristiana, mette in guardia dai rischi della conversione e della propaganda anti­islamica. Nel filmato, la voce narrante arriva ad affermare che in Indonesia ogni anno vi sarebbero due milioni di convertiti. Nel video la situazione viene segnalata come «allarmante» ed è accompagnata dall’insinuazione che la pratica di religioni diverse sia frutto di manipolazione e non di adesione spontanea. Secondo la campagna denigratoria che ha al centro il clip, l’islam dovrebbe affrontare i «concorrenti» ad armi pari, dotandosi di propri strumenti televisivi e informatici per contrastarne la propaganda. A confutare questi dati e queste pretese sono in molti, ma un ruolo particolare ha l’International Crisis Group , che in un rapporto ha denunciato il tentativo di creare situazioni di tensione e di scontro tra le comunità, utilizzando a pretesto i dati relativi ad aree del Paese che hanno visto una certa immigrazione cristiana per ragioni professionali o come conseguenza di calamità naturali (regioni della provincia di Aceh sull’isola di Sumatra, ad esempio). Al momento il grande Paese asiatico, impegnato a gestire l’uscita dal sottosviluppo e tradizionalmente centro di un islam dialogico e tollerante, conserva la 43° posizione nella classifica della persecuzione anticristiana nel mondo. Ha tuttavia mancato di tagliare le radici dell’odio. Forze di sicurezza e magistratura hanno colpito duramente l’islamismo radicale per quanto riguarda la minaccia alla stabilità nazionale, ma il governo ha mancato di prevenire e combattere le intimidazioni contro le minoranze religiose. Movimenti di attivisti islamici che attuano iniziative di veri e propri “vigilanti” sono diventati una minaccia all’ordine pubblico; il fallimento di una vera decentralizzazione amministrativa anche a livello di autorità proposte alle attività religiose ha impedito che si sviluppassero iniziative efficaci di dialogo e confronto; infine, il dibattito incerto sui limiti della libertà d’espressione ha permesso la nascita di iniziative propagandistiche e persecutorie. In questo ridando speranza al network terrorista, che negli ultimi anni si era ritrovato più diviso e indebolito. A esso la distorta propaganda islamista sulla “cristianizzazione” rischia di portare non soltanto nuovi aderenti, ma anche visibilità e giustificazione finora negate.
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