martedì 7 marzo 2017
«Per uscire da questa logica che lo ha reso marginale deve riscoprire simboli e profezia»
«Uscire da una logica di marginalità»
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Carmelo Dotolo è autore di Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare (Queriniana, pp. 366, euro 26). In cosa consiste la dizione “postcristianesimo” che lei usa per descrivere la situazione della fede di oggi?

«Già lo storico Emile Poulat aveva usato questa espressione. Per come la intendo io ciò significa che nell’attuale condizione socio-culturale il cristianesimo non scompare dall’orizzonte esistenziale e dal comune sentire, ma vive una marginalità all’interno di modelli cognitivi per cui il cristianesimo non interagisce più a livello culturale e pubblico. In questo senso, dunque, il cristianesimo viene vissuto come un museo della tradizione, che ogni tanto si visita, che colpisce in alcune figure-simbolo, ma che non incide nella costruzione dell’identità umana. Postcristianesimo significa affermare che la fede non è più un elemento dirimente nel dialogo tra chi dice di credere e la cultura in cui è inserito. Non è sinonimo di quel superamento della cristianità di cui parlava Chenu negli anni del postConcilio. È un cristianesimo che ama essere abitato nei momenti di demarcazione della vita, ma resta marginale rispetto all’esistenza stessa. È uno dei cristianesimi di oggi, per cui non si può parlare di precisa appartenenza ma al contempo non la si può escludere. Chi vive questo postcristianesimo si allontana dalle caratteristiche specifiche della fede cristiana, come la profezia e la presenza nel dibattito pubblico, accettando che l’esperienza religiosa sia marginale, anche in chiave cognitiva».

Lei afferma che la cultura contemporanea è 'inospitale' verso la fede cristiana e quindi la riflessione teologica oggi deve essere interdisciplinare. Cosa significa questo?

«L’inospitalità è dovuta al fatto che il cristianesimo oggi, mi pare, non si offre più come organicamente affidabile, ma rischia di essere insignificante a livello cognitivo: in pratica, resta una sorta di buon raccontino edifi- cante, ma perde le proprie ragioni di pensare. Non è una chiara ed esplicita negazione, ma al contempo non viene più apprezzato e non lo si considera culturalmente importante. Dunque, perché il cristianesimo (e la teologia) torni a sedersi a dialogare con le altre scienze è importante che riscopra alcune delle proprie pecu-liarità: ad esempio, il primato delle domande rispetto alle risposte, la preoccupazione di affrontare la realtà nella sua carica simbolica, e così via. Nel libro mi sono concentrato su due aspetti: le neuroscienze e il pluralismo religioso. Riguardo alle identità bio-culturali la teologia può offrire un contributo importante nella ricerca proprio di chi è il soggetto umano, un contributo che può far cogliere la religione come elemento fondante di questo soggetto».

Lei indica Teillhard de Chardin come esempio di capacità dialogica della teologia con altre branche del sapere umano. Quali pensatori o correnti di pensiero oggi vede capaci di questa interazione feconda?

«Penso a un nome passato come il cardinale Carlo Maria Martini, che in una delle sue Cattedre dei non credenti, affrontò il tema della scienza. Oppure, sempre stando sul piano scientifico, al teologo e scienziato John Polkinghorne. Se allarghiamo lo spettro dei saperi, mi pare che siano i teologi John B. Metz e Claude Geffrè quelli che ultimamente hanno dato più spazio a questa interdisciplinarietà. C’è però da rilevare che questa sensibilità non è propriamente italiana: se devo guardare a casa nostra, posso fare il nome di Fiorenzo Facchini, antropologo di Bologna. Su questo, il cammino della teologia in Italia ha ancora molta strada da fare».

Dedica alcune riflessioni ai nuovi atei: pensa che questa corrente di pensatori abbia lasciato traccia nell’opinione pubblica?

«Quel movimento culturale ha fatto riferimento a posizioni dell’illuminismo francese e inglese del Settecento. Dennett, Dawkins e Harris hanno ripreso la critica alla religione intesa come disfunzione evolutiva secondo un’interpretazione tipicamente darwinista. Non è una critica che è entrata in profondità negli elementi costitutivi della religione sebbene essa rimanga ancor oggi una questione aperta. Il neoateismo potrà ancora incidere socialmente sebbene le sue argomentazioni siano banali dal punto di vista intellettuale: basta leggere quanto Dennett scrive sulle questioni religiose e ci si rende conto che si tratta delle cose che del cristianesimo si dicevano 50 anni fa».

Lei sostiene che il cristianesimo debba «riattivare energie culturali, codici simbolici e pratiche di vita». Può farci qualche esempio?

«La teologia può essere capace di un senso alto della politica e dell’economia mentre è diffusa l’incapacità di leggere le nuove idolatrie globali. La concezione della creazione permette una responsabilizzazione nei confronti del creato: la teologia politica permette una liberazione dell’umano. Dovremmo riprendere la profondità della vita liturgica, nella quale i simboli sono ricchissimi e parlano alle domande dell’uomo di oggi. In chiave pratica, abbiamo bisogno di un cristianesimo che sappia giocarsi nell’apertura all’altro, nella coabitazione di cammini di crescita umani».

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