mercoledì 24 dicembre 2014
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È del 1968 la più bella canzone di Natale della musica rock. È  Christmas Song dei Jethro Tull, il gruppo che aveva come frontman il vocalista e flautista scozzese Ian Anderson, tuttora in attività con il gruppo che conserva lo stesso nome (preso da un’antica tomba – si dice – dove si leggeva appunto il nome biblico di Jethro, accanto al cognome Tull, secondo la mutuazione dei nomi di battesimo dal Vecchio Testamento, frequente nei Paesi del Nord Europa); ed è un bel record che il mitico gruppo di progressive rock si esibisca con immutata energia a mezzo secolo di distanza, ma che non deve meravigliare considerando quale devozione abbia circondato, per un ventennio a partire da metà degli anni sessanta, la loro colta musica, impareggiabile fusion di rock, jazz e folk scozzese; la band può contare anche oggi su tre schiere generazionali d’appassionati che affollano i loro concerti, anche italiani. Dei Jethro Tull è altrettanto nota la raffinatezza dei testi – pura poesia del Novecento – che hanno toccato spesso la tematica religiosa, culminando nello scandalo della suite My God, “Il mio Dio”, capolavoro centrale dell’album del 1971 Aqualung. My God  venne bandito dalla radio; ai concerti gli stessi fan, credenti, lanciavano i dischi fatti a pezzi sul palco in segno di protesta. Il pezzo era violento e conteneva un attacco frontale al tradimento dello spirito cristiano dato dalla religione costituita, soprattutto dalla bloody church of England, la “maledetta chiesa d’Inghilterra”, l’anglicana. Eppure non vi era nulla di blasfemo in essa. L’autore Ian Anderson ne difese sempre la religiosità, definendola uno straziante blues dedicato a Dio. Col tempo, la natura di capolavoro del provocatorio e sanguigno My God non poté essere disconosciuta. In Italia ebbe la sorte di un altro coevo pezzo dei Nomadi,  Dio è morto,  censurata in Rai e trasmessa solo da Radio Vaticano, che di fatto la sdoganò e promosse, riconoscendo anche in questo caso al pezzo un valore artistico ed etico. Ma nulla delle tempeste ideologiche che accoglieranno, tre anni più avanti, l’uscita di My God  in Aqualung s’intuisce nella dolcissima Christmas Song  (edita nell’album del ’72  Living in the Past) quando i Jethro Tull la incidono nel ’68. La canzone dura meno di 2 minuti, ed è su una struggente melodia “in levare” a corde pizzicate in sette ottavi, forse tratta da un’antica lullaby o ninnananna, di cui conserva il ritmo sussurrante e ipnotico.
Splendido è anche il testo, simile a una nursery rhyme, filastrocca o fiaba per bimbi, intriso però di una profonda malinconia di riflessione e anche di monito religiosi. Eccolo, in forma integrale: «C’era una volta, nella città del re David / una stalla che sorgeva isolata / dove una mamma stringeva a sé il suo piccolo / di cui fareste bene a ricordare quello che avrebbe detto da grande, / quando andate, voi tutti, a riempirvi lo stomaco nelle feste di Natale. / Riderete, sì, sentendo dire ch’è venuto il tempo per voi di prendere la rincorsa per un salto in avanti / e che avete perso di vista quello che non dovrebb’essere necessario ricordarvi: / cioè che lo spirito del Natale non è quello che trincate nei party: / voi, che neanche riuscireste a capire che ha fame vostra madre / e ridereste pur sapendo che / le ragioni per ridere sono tutte quante sbagliate. / E se queste parole stanno disturbando il vostro incosciente divertirvi, /scusate: era solo una canzone di Natale». È impossibile rendere la bellezza di questo monito a riscoprire the Christmas spirit, il vero spirito del Natale, senza le note che lo sorreggono in limpide frasi musicali, quasi a cappella, di una struggente grazia folk, non rara in tutta la musica dei Jethro Tull. Pudica, commossa, appassionata, è la più bella canzone natalizia della musica pop. Lontanissima dai Christmas carol anglosassoni – che si perdono nel fiato delle strade gelate, all’odore del Christmas spirit da vin brulé – lo è ancora più dalla paganizzazione del natale commerciale espropriato a Dio a vantaggio di Santa Claus e delle cose da comprare.  Né manca, alla fine della canzone, un aperto riferimento polemico a Babbo Natale. Terminato infatti il pezzo, dopo qualche istante di silenzio, si ode una voce di fondo dire, quasi a microfono lasciato aperto: «Ehi, Santa Claus! Ci passi o no ’sta bottiglia da bere?».
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