mercoledì 24 giugno 2020
La poetessa brasiliana di origini amazzoniche, commossa dall’interessamento del Papa per la sua terra, scrive versi in portoghese e italiano facendo parlare il cuore della foresta
Márcia Theóphilo

Márcia Theóphilo - -

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«Açana, Yaná, Nacaira / Caja, Pacaba, Maçaranduba / ogni parola un essere, parole che scrivo / io vedo un’aria piena di parole/ foresta mio dizionario / parole vive e masticate/ aspre di cammini già percorsi». Ogni poesia di Márcia Theóphilo è bilingue: una sotto l’altra, si snodano le versioni in portoghese brasiliano e in italiano. Ma è un altro l’autentico idioma in cui si esprime l’autrice brasiliana, nata nell’Acre, esule in Italia negli anni Settanta durante la dittatura e ora residente tra Roma e San Paolo. Per percepirlo, occorre lasciarsi cullare le orecchie dal ritmo acquatico dei versi. Fin quando le parole si sciolgono, nel moto implacabile del Grande fiume. Allora, irrompe densa e profonda la voce dell’Amazzonia. «Ho imparato la lingua della foresta e non ho fatto altro che tradurla per far conoscere al mondo, agli uomini sensibili, i suoi significati. Nella speranza che anche gli insensibili possano ravvedersi perché quel mondo possa essere salvato, preservato, amato», racconta la poetessa e antropologa, nota per le sue opere in ambito internazionale e omaggiata di numerosi premi. Il Covid l’ha costretta a rinviare il consueto periodo di soggiorno in Brasile e a fermarsi in Italia, dove Mondadori ha appena pubblicato Amazzonia verde d’acqua (pagine 336, euro 22,00), corposa raccolta di poesie che compongono uno straordinario dizionario della foresta. Theóphilo, dunque, segue a distanza l’evoluzione della pandemia che, dopo aver dilaniato l’Europa, si accanisce con violenza sulla sua terra. E sulla sua Amazzonia, dove cancella, insieme agli anziani, la memoria ancestrale dei popoli. Un dolore lancinante per l’autrice, indigena da parte di padre. Per questo, pur non essendo cattolica, si dice «commossa » dall’attenzione di papa Francesco per la regione. Un affetto dimostrato dal Pontefice con la convocazione del Sinodo speciale dello scorso ottobre. E confermato anche in questo momento tragico con l’appello, al termine del Regina Coeli di Pentecoste, per la foresta e i suoi abitanti, a partire dai più vulnerabili. Gli indios, appunto. «Mi piacerebbe tantissimo avere l’opportunità di regalargli i miei libri per ringraziarlo », aggiunge.

Che cos’è per lei l’Amazzonia?

E’ la mia “patria”. I miei nonni paterni sono nati nella foresta. E anche mio padre Djalma. Erano dell’Acre, una regione interna dell’Amazzonia brasiliana, la terra di Chico Mendes. Mio padre lavorava là e là ho trascorso parte dell’infanzia. Giocavo con gli altri bambini, in piena libertà, imitando i versi degli uccelli, nuotando nel fiume, salendo sugli alberi. La nonna mi raccontava i miti antichi, le storie delle sirene e dei folletti. E mi insegnava le voci del vento, le metamorfosi della luna, il linguaggio dei fiori. L’incontro con la loro realtà è l’origine della mia ispirazione poetica. La famiglia di mia madre, invece, di origine portoghese, rappresentava per me la città, la scuola, lo stile di vita europeo.

A che età ha iniziato a scrivere?

Ho imparato a scrivere a cinque anni e, subito, agli occhi della famiglia di mio padre sono diventata “Márcia la scrivana”. Scrivevo le lettere per mia nonna, poesie d’amore per le amiche da dedicare ai loro fidanzati, racconti da recitare. Ho composto i primi versi a tredici anni. La poesia è venuta naturale: è la mia compagna, la mia seconda pelle, la mia preghiera. Si fonde coi miti e i riti del Brasile, nella sua cultura mistica e sensuale.

Quali autori l’hanno influenzata?

Da adolescente divoravo i capolavori della letteratura portoghese e brasiliana. Adoravo le cronache dei grandi viaggi verso le Americhe e dei primi contatti tra indios e conquistatori. Leggevo anche i classici francesi e russi, soprattutto Racine, Victor Hugo, Camus, Tolstoj e, soprattutto, Dostoevskij. Il mio eroe era, però, Don Chisciotte.

A quale poeta italiano è più legata?

A Mario Luzi che ha scritto anche la prefazione del mio poema sui bambini giaguari. Un grande onore. E’ stato un vero maestro e un amico.

Perché, poi, ha scelto di diventare antropologa?

Per comprendere meglio l’identità indigena. L’antropologia, però, è una disciplina scientifica che privilegia la cultura materiale. Mi considero, dunque, piuttosto una poetessa– antropologa: al centro del mio lavoro c’è lo spirito della foresta.

Che cosa intende?

Ho scoperto che nella foresta c’è una lingua autonoma, diversa da quella delle tribù, diversa da tutte le altre lingue. L’ho imparata e, grazie a lei, posso sentire come alita lo spirito della foresta. Dentro l’Amazzonia c’è il mio cuore che batte e dentro il mio cuore c’è l’Amazzonia che respira.

Fin da giovane, è stata molto impegnata nella difesa dell’Amazzonia e dei suoi popoli. I suoi versi sono parte di questa battaglia civile?

La poesia è strumento libero, vero, senza condizionamenti. Colpisce il cuore e la mente. Tutto può essere business, non la poesia. Attraverso di essa, gli uomini e le donne possono capire che gli alberi siano noi. E che noi siamo alberi. Siamo uniti. Uccidere loro è uccidere noi stessi. Disboscare migliaia di chilometri quadrati è pura crudeltà, non solo verso la natura, bensì verso il genere umano che senza il soffio di quella membrana verde, si estinguerebbe.

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