venerdì 20 aprile 2018
Le nuove mostre della Collezione Pinault: a Palazzo Grassi una personale del pittore tedesco Albert Oehlen, a Punta della Dogana una esplorazione della presenza dell'artista nell'arte contemporanea
L'allestimento della mostra di Albert Oelhen a Palazzo Grassi

L'allestimento della mostra di Albert Oelhen a Palazzo Grassi

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Dopo l’espansionismo bulimico di Damien Hirst, che con il suo naufragio aveva occupato entrambe le sedi veneziane di Pinault, Palazzo Grassi e Punta della Dogana tornano alla consueta programmazione, dividendosi tra una personale e una collettiva basata sulla collezione del magnate francese. Proseguendo una linea germanofona che ha visto mostre di Fischer, Polke e Stingel, Palazzo Grassi propone una personale di Albert Oehlen (Krefeld, 1954), a cura di Caroline Bourgeois (catalogo Marsilio-Pinault Collection, progetto grafico di John Morgan).

Oelhen è pittore più solido che originale, visionario ma non rivoluzionario. Coetaneo di Kippenberger (di cui fu amico e collaboratore) e Forg, è testimone della lunga e felice stagione della pittura in Germania. Dei decani Richter, Baselitz, Kiefer e Polke, i primi due sono per lui importanti, pochissimo il terzo, mentre l’ultimo è il vero punto di riferimento per l’artista, sia per l’approccio al fatto pittorico, sia per un disinteresse verso le questioni della storia tedesca.

Oehlen, d’altronde, non si pone problemi ideologici nemmeno dal punto di vista linguistico, mettendo al centro semplicemente la pittura. Oehelen può lavorare nel modo più disparato, da una gestualità che costeggia l’azionismo – Rainer più che Nitsch – a pratiche surrealiste, il figurativo neoespressionista, geometrie, la Pop art delle immagini trovate, citazionismi e sberleffi. La costruzione della mostra insiste su questo aspetto mescolando le opere sia sul piano cronologico (l’arco va dagli anni 80 a oggi, ma la maggiore parte è degli ultimi 20 anni) che linguistico.

Se c’è un fattore unificante è il procedere per strati: colori, forme, linee, scritte, affiche, citazioni. È stratificazione anche quando proietta un film sopra un dipinto: è un collage in movimento, dalla forma sempre nuova e imprendibile. Ha ragione Jean-Pierre Criqui quando nel suo testo suggerisce di vedere le tele di Oehlen «come territori... il territorio coincide con la sua stessa mappa: l’artista costruisce il suo paese nel momento stesso in cui ne effettua il rilevamento». Anche una mappa procede per livelli: strati di segni codificano lo spazio. Qui l’accumulo è un’operazione di mascheramento e rivelazione, lasciando che i frammenti agiscano come dispositivi.

In ogni caso, Oehlen concentra l’attenzione sulla forma prima che sull’eventuale significato (i titoli possono suggerirlo o meno). È una ricerca progressiva di “bellezza”, che la tela documenta come un palinsesto: «Vedo solo brandelli di una bruttezza insopportabile che all’ultimo momento, come per magia, si trasformano in qualcosa di bello». Il dipinto è finito, ma non perfetto. La perfezione (e c’è qui una delle eredità di Richter, più che il gioco delle citazioni) è inattingibile.

Se i grandi collage appaiono meno interessanti, lo sono molto invece i dipinti in cui riproduce pittoricamente il risultato di una creazione digitale realizzata attraverso gli strumenti – pennelli, spray, pattern grafici, forme geometriche come dime per cut up – a disposizione dei programmi di videografica in bianco e nero dei primi anni 90. Tracciati prima sul monitor, sono trasportati su tele di grandi dimensioni, fin nell’effetto sgranato del pixel. Sono lavori che anticipano una riflessione sulle connessioni tra pittura “analogica” e “digitale” in questo momento particolarmente attuale. La ritroviamo anche in tele più recenti dalla struttura semplificata, aree bianche accostate a campi monocromatici su cui ramificano segni neri ed essenziali.

A colpire di Oehlen è il controllo della forma. È l’altro elemento costante a fronte dell’eclettismo dell’espressione. Oehlen è grande amante del jazz, del free in particolare, ma anche di Frank Zappa – che sotto molti punti di vista è il reale corrispettivo acustico dei suoi lavori. «L’unione di elementi venuti dal jazz con una forma di ironia politica e una pseudo musica contemporanea sembrava rivoluzionaria, e probabilmente lo è» ha detto l’artista parlando del suo impatto a 14 anni con il musicista americano. Flusso e rigore, progetto e ascolto dell’imprevisto, elementi necessari in ogni improvvisazione, sono le chiavi del metodo di Oehlen.

L’artista compare in un’opera di Martin Kippenberger esposta a Punta della Dogana. Insieme alla presenza di alcuni autoritratti a Palazzo Grassi, è il solo nesso tra le due mostre. Curiosamente, come la monografia di Oehlen appare variegata, la collettiva Dancing with myself curata da Martin Bethenod e Florian Ebner (l’ampio catalogo – un testo per ogni artista – ha il progetto grafico di Leonardo Sonnoli: le citazioni sono doverose perché è raro trovare volumi di questo impegno), appare molto più omogenea. Complice anche il tema, un’esplorazione della presenza dell’artista come oggetto e protagonista dell’opera dagli anni 70 a oggi.

Spunto intrigante, ma il cui sviluppo non appare sempre davvero a fuoco. I problemi sono diversi. La mostra nasce dalla collaborazione con il Museum Folkwang di Essen, dove è stata presentata nel 2016. Alla Punta della Dogana è presentata con alcune variazioni nei pezzi e un allestimento (elegantissimo) ripensato anche negli abbinamenti. Se gli artisti sono una trentina (tra gli altri Gilbert & George, Urs Fischer, Cindy Sherman, Rudolf Stingel, Marcel Broodthaers, Alighiero Boetti, Maurizio Cattelan, Damien Hirst, Adel Abdessemed, Nan Goldin… per alcuni si tratta di piccole sale monografiche) non mancano assenze vistose rispetto al tema (tre figure su tutte VALIE EXPORT, Orlan e Ana Mendieta), motivabili probabilmente con l’assenza di loro opere nelle due collezioni - fatto che però espone automaticamente al rischio di falle una mostra di carattere ricognitivo da una o due collezioni soltanto.

L’altro aspetto è la scelta di tenere troppo largo il criterio di selezione. Giustamente la mostra non si concentra solo sull’autoritratto contemporaneo (anche perché mostre di questo tipo erano già state proposte in Europa negli ultimi anni) ma, per quanto motivata nel testo di Abigail Solomon-Godeau in catalogo, non convince fino in fondo il fatto di tenere in considerazione sia quando l’artista in persona è essenziale ai fini dell’opera sia quando al suo posto potrebbe esserci chiunque (come per Bruce Naumann); oppure sia quando l’artista fa di (del) sé un portato semantico decisivo o utilizza il proprio corpo solo in modo strumentale.

Il myself del titolo, il “se stesso”, è dirimente nell’intervenire nei campi presi in esame: tempo, genere, sentimento... Altrimenti non c’è differenza con un’opera qualsiasi. Il caso della Sherman è esemplare: in un certo senso il sé del-l’artista non è mai “presente” ma il fatto che sia impossibile concepire le sue opere interpretate da altri fa sì che sotto la sfilata delle maschere vibri una radiazione di fondo identitaria che si definisce per negazione.

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