giovedì 3 aprile 2014
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Ci sono gli imam im­migrati, stipendiati dai Paesi d’origine, quelli di seconda generazione, già in­tegrati in una rete di islam europeo, ma anche quelli 'fai-da-te', poco pre­parati e fuori controllo. Con l’affer­marsi della presenza musulmana in Europa, anche il ruolo delle gui­de religiose è cresciuto in impor­tanza: oltre a officiare la preghiera collettiva, rappresentano un pun­to di riferimento per i fedeli immi­grati, in cerca di consiglio sull’ap­plicazione quotidiana dei precetti. «È un ruolo molto delicato, perché queste comunità sono prive di un’i­stanza rappresentativa ed esiste quindi il rischio che si affidino a se­dicenti esperti religiosi o a predi­catori su internet, avulsi dalla realtà europea e caratterizzati da un ap­proccio spesso contrario all’inte­grazione»: a lanciare l’allarme è Mi­chel Younès, docente di teologia al­l’Università cattolica di Lione, do­ve è responsabile del Centre d’Etu­des des Cultures et des religions.  «In particolare, gli imam devono con­frontarsi regolarmente con do­mande che riguardano la concilia­zione tra fede e leggi dello Stato», aggiunge Younès. «È per venire in­contro a quest’esigenza che abbia­mo pensato a un corso di forma­zione che insegni le norme, i valo­ri e i costumi sociali di base del con­testo europeo». L’idea, coltivata da anni da Kamel Kabtane, rettore del­la Grande Moschea di Lione, si è concretizzata un anno fa grazie al­la collaborazione tra lo stesso Ate­neo cattolico (a nome del quale il professor Younès coordina il cor­so), l’Università Lyon 3, la prefet­tura e alcune istituzioni islamiche. Obiettivo: aiutare gli imam a di­ventare fattori di integrazione. Professore, come funziona il corso? «C’è una parte teorica che ap­profondisce le questioni giuridi­che, in particolare il diritto alla li­bertà religiosa e le libertà fonda­mentali, la storia del cristianesimo e dell’ebraismo, oltre a lezioni in­tensive di francese per gli imam ar­rivati da poco. Abbiamo poi alcu­ne sessioni di analisi pratica, che prevedono simulazioni di situa­zioni concrete con l’obiettivo di do­tare i partecipanti di strumenti per affrontare tensioni o richieste le­gate al fattore religioso nella vita pubblica. La peculiarità del nostro corso è che alcuni dei moduli, co­me quelli pratici, sono in comune con un diploma universitario ri­volto ai funzionari statali, chiama­ti a confrontarsi col pluralismo re­ligioso nei propri contesti profes­sionali: scuole, ospedali, istituti di detenzione. In questo modo, per­mettiamo agli imam e agli opera- tori statali di conoscersi e di con­frontarsi». La formazione punta molto sulla laicità: perché? «Soprattutto nel contesto francese, comprendere la laicità è impre­scindibile: è fondamentale che non sia percepita come un attacco alla religione ma, al contrario, come u­no spazio in cui le fedi si possono esprimere. Gli imam europei, inol­tre, devono sapere come l’islam si è rapportato alla modernità: per questo alcune lezioni, tenute da e­sperti musulmani, approfondisco­no ad esempio la relazione tra scienza e fede, spiegando come sia possibile interrogare la religione se­condo un metodo scientifico, sen­za per questo distruggerla». Chi sono questi imam europei? «Il loro profilo è piuttosto vario. Al­cuni sono legati ai Paesi d’origine, dai quali sono anche sostenuti e­conomicamente, a volte con con­tratti di lavoro. Altri potrebbero es­sere definiti 'imam auto-procla­mati': semplici fedeli che magari conoscono la religione un po’ più della media e per questo si trasfor­mano in guide religiose di un grup­po, del quartiere, o del carcere. Rap­presentano una minaccia, perché non sono controllabili. Ci sono in­fine gli imam nati o cresciuti in Eu­ropa, legati a federazioni europee. A Lione abbiamo diverse reti, riu­nite nell’Unione delle organizza­zioni islamiche di Francia, e l’ Insti­tut Français de Civilisation Musul­mane, con cui collaboriamo nel­l’organizzazione dei corsi: interlo­cutori autorevoli coi quali con­frontarci». Che cos’è la 'fatwa di minoranza', che lei teorizza? «Il termine fatwa indica un parere giuridico emesso da un esperto sul­la base del Corano e della Sunna, e riguarda sia la vita quotidiana sia questioni più complesse, come la politica o la finanza. A Dublino e­siste il Consiglio europeo della fatwa e della ricerca (Cefr): noi ab­biamo svolto uno studio di tre an­ni per capire chi si rivolge a questa istituzione, che cosa domanda e che cosa gli viene risposto, e siamo rimasti sorpresi dalle modalità che in alcune occasioni sono state tro­vate per adeguare le regole del Co­rano al contesto europeo. Ad e­sempio, una decisione del Cefr au­torizza le minoranze islamiche in Europa, che non hanno accesso al­le banche operanti secondo le re­gole della shari’a, a usufruire di pre­stiti a interesse, di norma illeciti. La 'fatwa di minoranza' costituisce dunque una nuova concezione ca­nonica sviluppatasi in questi anni, un’evoluzione interna all’islam in quanto religione minoritaria in Eu­ropa ». Esiste un 'islam europeo'? «L’Europa non è uniforme, né lo è il modo con cui gli immigrati mu­sulmani rielaborano la propria fe­de nel confronto con la modernità: c’è chi rigetta la religione, chi ten­ta di conservarsi e chi prova una ri­composizione, dando origine a modelli più liberali. Per esperien­za posso dire che questo islam rie­laborato in Europa può avere un’in­fluenza positiva anche nei Paesi d’origine dei migranti. Certo, è un processo che ri­chiede tempo». A che punto è il confronto tra cri­stianesimo e islam in Europa? «Il contesto euro­peo favorisce que­sto confronto, in virtù della laicità e in questi anni in Francia abbiamo potuto realizzare momenti signifi­cativi di dialogo: gli imam hanno avuto modo di interrogarsi sugli in­segnamenti della propria fede e delle altre riguardo la convivenza. Una convivialità della quale lo Sta­to si è fatto garante».
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