giovedì 25 agosto 2011
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Il caldo, alla cava, era insoppor­tabile: la pietra candida riflette­va, come in un gigantesco specchio ustorio, i raggi del sole e­stivo. Esausti e sudati gli uomini si davano da fare per separare i bloc­chi di marmo. Verso valle, l’acqua piovana aveva colmato una cava abbandonata. Il signor Greppi, che si vantava di esser un grande pe­scatore, aveva riempito il laghetto artificiale di avanotti che, complice forse il calcare, erano cresciuti a di­smisura. Il mare non era lontano, ma che una famiglia di gabbiani a­vesse deciso di nidificare lassù era singolare. O forse era grazie al la­ghetto del signor Greppi e alle sua carpe giganti. Dario Pisani, da qualche tempo capo turno alla cava, era un giova­notto volenteroso e attento: la vita del cavatore era difficile e pericolo­sa, ma lui lavorava con passione, convinto che, da quel marmo can­dido, un novello Michelangelo a­vrebbe prima o poi scolpito un pezzo della Storia dell’Umanità. «La vena si va esaurendo, ragazzo mio», gli disse Greppi quella matti­na. «E io sono troppo vecchio per cercare nuovi filoni. Mi hanno fat­to un’offerta per la concessione e sarei tentato di…». «Mi dispiace, signor Greppi, se di­ce questo. Ho sempre pensato che questo lavoro riuscisse a regalare sensazioni simili a quelle dei cer­catori d’oro: individuare una vena di buon marmo può far diventare ricchi all’improvviso». «È vero, Dario. Proprio di una sorta di febbre dell’oro si tratta. Pensa solo alla leggenda della cava di portoro». «La cava di portoro? Ma non si tratta di una varietà preziosissima e ormai introvabile?», disse Dario sgranando gli occhi. «È vero», gli fece eco Greppi. «Il portoro era conosciuto già ai tem­pi degli Etruschi e la zona di estra­zione era limitata al vicino golfo della Spezia: vennero scoperti dei giacimenti nelle isole e sui quei monti laggiù, al confine tra Liguria e Toscana».Così dicendo Greppi indicò un ri­lievo non troppo distante dalle A­puane. «So che il portoro», aggiunse Dario. «È considerato tra i più pregiati al mondo. Si dice che gli antichi fos­sero convinti che le striature gialle sulla pietra nera altro non fossero che venature d’oro…» «È vero, ma si tratta solo di “dolo­mitizzazione” delle sostanze orga­niche avvenuta in centinaia di mi­lioni d’anni. La leggenda dice che un giovane, entrando in una grot­ta, abbia scoperto un giacimento di portoro, e che mai abbia rivelato la sua ubicazione… Ma, dimmi, come sta tua moglie?» «Non si tratta di una gravidanza fa­cile. Speriamo bene», rispose il gio­vane. «Chi sarebbero questi im­prenditori interessati a rilevare la concessione?» «Pino Sicora e i suoi». «Ma… ma signor Greppi… sapete bene che cosa dicono di quella gente… stanno investendo nelle cave i denari della mafia e non guardano in faccia a nessuno…» «Poche ciance e rimettiti al lavoro: siamo già in ritardo con le conse­gne », tagliò corto Greppi. Quella notte Dario non chiuse oc­chio o quasi.«La tua reazione mi ha fatto pensa­re, Dario», gli disse il datore di la­voro alcuni giorni più tardi. «Hai ragione: non è bello concludere la propria carriera regalandosi a certa gente. Ho volturato la concessione in tuo favore…con la tua perseve­ranza ci riuscirai…».«La cosa mi lusinga… ma i Sico­ra… », disse Dario con una vena di preoccupazione nella voce. «Ho già parlato con loro. Hanno vagheggiato qualche minaccia, ma penso che alla fine non si sporche­ranno le mani per un vecchio più 'esaurito' della vena di marmo della sua cava». Così dicendo Greppi salì sull’auto e salutò Dario con un gesto della mano. La strada per abbandonare la cava era impervia e pericolosa e Greppi l’a­vrebbe percorsa con calma. Dario rimase con lo sguardo verso il cielo terso, il gabbiano non ces­sava di emettere suoni gutturali in direzione di un esemplare più gio­vane, che stava compiendo incerte planate sfiorando l’acqua del la­ghetto artificiale. «Gli sta insegnando a volare», disse un collega. «Che hai detto?», chiese Dario so­prappensiero. «Il gabbiano sta insegnando a vo­lare a suo figlio». Greppi teneva il pedale del freno premuto. Stava affrontando il terzo dell’interminabile serie di tornanti, quando il piede spinse sino a fine corsa: l’impianto frenante aveva smesso di funzionare e l’auto, inar­restabile, incominciò a prendere sempre più velocità lungo la disce­sa. Dario era appena uscito dall’obitorio: era toccato a lui il riconoscimento del povero Greppi. Stava avviandosi verso casa, quando uno sconosciu­to gli si avvicinò: «Quella concessione ci interessa. Non ti azzardare a entrare in com­petizione con noi. Hai visto quello che è successo a Greppi?» Detto questo l’uomo si allontanò velocemente. Cinque giorni più tardi Carlo, così Dario e sua moglie l’avevano chia­mato, decise che fosse tempo per venire al mondo.Nei due anni che seguirono alla nascita di Carlo, i Sicora avevano raggiunto il monopolio pressoché totale nella concessioni su quel versante delle Apuane: per rilevar­le pagavano i concorrenti in con­tanti, spesso a valori maggiorati ri­spetto al mercato. E, se non fossero state sufficienti le valigie piene di soldi, disponevano di mezzi di convincimento ancor più persua­sivi. Si diceva che Puccio Sicora fosse la longa manus che reinvesti­va i proventi illeciti di Cosa Nostra in attività pulite. E, Sicora ne era convinto, lo sfruttamento delle vecchie concessioni sarebbe prima o poi diventato premiante. Unico neo nella sua campagna di acqui­sizioni era la concessione che il vecchio Greppi aveva volturato a Dario poche ore prima di sfracel­larsi nel burrone. E Dario pareva non avere alcuna intenzione di ce­dere alle lusinghe o alle minacce di Cosa Nostra. «Quello è un impertinente!», e­sclamò Sicora a un losco individuo che gli stava davanti. «La sua cava è baricentrica rispetto a quelle in nostro possesso: se dobbiamo continuare ad aggirarla per portare a valle i blocchi di marmo, i nostri costi di trasporto decuplicano…» «Ci manca solo quello, Puccio: in Sicilia si aspettano risultati dal tuo operato», gli rispose l’altro. «Mica posso tornare giù e dire che siamo al palo per un cavatore “imperti­nente”… e tu sai che quando giù diventano impazienti…» Il medico scosse il capo, confer­mando le paure che loro stessi fug­givano: Carlo era affetto da auti­smo.Se ne erano accorti appena il bam­bino aveva dovuto rapportarsi con gli altri e iniziare a parlare. Adesso il piccolo avrebbe avuto bisogno di cure costose e di assistenza.Dario uscì dall’o­spedale stringen­do la mano a sua moglie. Aveva gli occhi gonfi e ar­rossati. Rispose distrattamente al telefono, ma la voce dall’altro ca­po della linea lo riscosse: un ordi­gno aveva fatto saltare per aria le preziose macchi­ne da cava della sua impresa. Il suo sogno era finito. Carlo seguiva passo dopo passo il padre. Non parlava, ma sembrava capire ogni cosa. Nelle asperità della vita non esiste un valore as­soluto nella scala delle soddisfa­zioni: queste si adattano al nostro vivere. E Dario godeva delle soddi­sfazioni che il lento miglioramento di Carlo riusciva a fargli provare. Solo che i suoi risparmi erano or­ra mai agli sgoccioli e il lavoro che a­veva trovato non gli avrebbe con­sentito di seguire il bambino come necessario.Dario indicò le Apuane poco di­stanti dalla sommità del monte Carpione sul quale si trovavano. Il bambino seguì con lo sguardo il punto indicato dal dito del padre. «Vedi laggiù, Carlo?», disse Dario. «Lì ci sono le cave. La ricerca del marmo più prezioso è simile a quella dell’oro. Riesce a rendere febbricitanti gli uomini come un tesoro. Pensa che pochi giorni fa un certo Puccio Sicora è stato rin­venuto cadavere, dopo che tutte le concessioni minerarie di cui aveva fatto incetta erano risultate esauri­te. Si dice che sia stato un regola­mento di conti nella mafia. Gli sta bene: sono convinto l’incidente del povero signor Greppi e l’atten­tato alla mia cava abbiano Sicora come mandante».Carlo rimaneva immobile, lo sguardo perso verso le vette all’o­rizzonte, sino a che un vecchio gabbiano prese a volteggiare sulle loro teste, per andarsi fermare nei pressi di un anfratto. Carlo prese a correre verso il gabbiano, Dario lo seguì preoccupato. Quando rag­giunse il piccolo si accorse che l’anfratto nascondeva l’ingresso di una grotta. Dario ci infilò la testa e illuminò le pareti con una torcia. A pochi metri dall’ingresso il marmo nero, striato di venature dorate, brillava alla luce della lampada.«Portoro!», esclamò Dario. «La cava dell’antica leggenda».Il gabbiano compì un paio di cer­chi sulla sua testa, garrì e poi si al­lontanò in direzione delle Apuane. Dario accarezzò la guancia al pic­colo. Carlo lo guardò e, sforzando­si, pronunciò la prima parola della sua vita: «Papà!», disse il bambino. Dario non smise di accarezzargli la guancia piegata ora in un sorriso soddisfatto.«T’insegnerò a volare!», disse rivol­to al figlio, mentre lacrime di feli­cità gli rigavano il volto.
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