sabato 13 settembre 2014
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IL VANGELO MOSTRA UN PRESTIGIO ROVESCIATO
 
Possiamo percorrere l’apparire della gloria in tre scene della Passione secondo Giovanni, autentiche «epifanie ». Gesù è stato condotto davanti a Pilato, il rappresentante dell’imperatore Tiberio Cesare. Sono i sacerdoti ad aver già pronunciato la condanna religiosa ma, non potendo metterla in atto in quanto riservata al potere politico, consegnano Gesù a Pilato affinché, con ulteriore condanna, lo metta a morte. Pilato interroga Gesù più volte all’interno del pretorio e più volte ne esce per parlare a quei giudei che gli hanno consegnato il condannato, ma per tre volte deve confessare: «Io non trovo in lui colpa alcuna». Gesù non ha commesso delitti che meritino la condanna da parte della giustizia dell’impero romano.
 
Di fronte alla domanda plebiscitaria della folla, di fronte alla maggioranza della gente che vuole Gesù morto, Pilato lo fa flagellare, i soldati per deriderlo gli mettono sul capo una corona di spine – non una d’oro gloriosa, ma una di aculei che gli trafiggono il capo – gli mettono la porpora regale come mantello e inscenano una parodia inginocchiandosi davanti a lui, dicendogli: «Salve, re dei giudei!» e colpendolo con pugni e schiaffi. Poi Pilato prende Gesù, così ridotto, lo porta fuori perché la folla lo veda e lo presenta: «Ecce homo! Ecco l’uomo!». Sì, questo è l’uomo! Verrebbe da dire, con Primo Levi: «Se questo è un uomo...». Sì, questo è l’uomo nella sua verità: vittima del male nella sua banalità e tragicità, consumato da uomini comuni – i soldati – ma organizzato dal potere politico e religioso di questo mondo. Questa, secondo il quarto Vangelo, non è una scena di disprezzo ma un’epifania della gloria. Gesù così ridotto, mite che non si vendica, che accoglie su di sé la violenza e non la ricambia così da spezzarne definitivamente la spirale, Gesù è l’uomo, l’uomo per eccellenza! È l’Adamo che dà la vita per gli altri anziché prenderla agli altri, anziché voler vincere senza gli altri o sugli altri. «E noi abbiamo visto la sua gloria!», confesserà Giovanni nella sua prima Lettera, l’unica gloria visibile di Gesù, la gloria di Dio in Gesù suo Figlio!
 
La seconda epifania vede Pilato ancora titubante di fronte a Gesù che gli dice di essere re ma non come i re di questo mondo, di essere venuto per servire la verità, ma non rivela la propria identità, né gli dice «da dove» lui viene. Ma il potere religioso insiste e convince Pilato di cosa significa per lui salvare Gesù: non sarà più amico di Cesare, anzi si metterà contro Cesare. La maggioranza vuole così: meglio avere Cesare come re totalitario che accogliere un re mite e servo degli altri! Allora Pilato fa condurre Gesù fuori dal pretorio e lo fa sedere nel tribunale, nel luogo chiamato «litostrato». È la vigilia della Pasqua, il 7 aprile dell’anno 783 dalla fondazione di Roma, verso mezzogiorno, e Pilato, dopo aver interrogato Gesù, lo presenta alla folla: «Ecco il vostro re!».  Un Gesù torturato, prigioniero, viene fatto sedere sul trono del giudice del tribunale nell’ora in cui i giudei attendevano la venuta del giudice finale, Dio stesso, giudice di tutta la storia. Ancora una parodia che però è epifania: Gesù è giudice  e sta su un trono, ma è un pover’uomo, una vittima sfigurata, oppressa, condannata a morte, osteggiata, perseguitata... Eppure, secondo il quarto Vangelo, è proprio questa l’epifania della gloria... Autentico capovolgimento dei nostri criteri Mondani!
 
Chi è il vero nostro giudice? Gesù l’ha detto nel Vangelo di Matteo: alla fine della storia il giudice di ciascuno di noi sarà il bisognoso: «Avevo fame e mi avete o non mi avete dato da mangiare; ero straniero e mi avete o non mi avete accolto; ero in carcere e siete o non siete venuti a trovarmi; ero malato e mi avete o non mi avete visitato». Il giudizio avviene qui e ora, e i nostri giudici sono le persone che incontriamo, gli uomini e le donne a noi prossimi, di cui noi abbiamo o non abbiamo cura. Il Figlio dell’uomo li rappresenta tutti. Dunque, su quel trono posto in alto, Gesù nella Passione è giudice più che mai. Ecco allora dov’è la sua gloria: in questa identificazione con le vittime della storia, i poveri e i perseguitati. 
 
La terza epifania è quella dell’ultima ora. Gesù, portando la croce, si avvia verso la collina del Cranio, il Golgota, dove lo crocifiggono in mezzo ad altri due condannati a morte. Il Vangelo sottolinea che Gesù è «nel mezzo», in posizione regale. Pilato aveva fatto scrivere un cartello da mettere sulla croce, sul quale era il «titolo», l’attributo che competeva a Gesù: «Gesù, il Nazoreo, il Re dei Giudei». E lo fa scrivere nelle tre lingue dell’ecumene: ebraico, greco e latino, così che tutti lo possano leggere. È una proclamazione di Gesù re dei giudei. Per questo i giudei la contestano e dicono a Pilato: «Devi scrivere che lui ha preteso di essere il Re dei Giudei, mentre così sei tu a proclamarlo tale!». Ma Pilato, come impotente di fronte a un impulso interiore, dice: «Ciò che ho scritto, ho scritto!». Ecco così la terza presentazione di Gesù da parte di Pilato: presentazione che nell’intenzione di Pilato è disprezzo, ma che nell’oggettività dello «sta scritto» è gloria! È l’epifania di Gesù, Re Messia, ma al contrario. Non un messia vincitore dei nemici, non un messia nello splendore di una corte regale, non un messia al cuore di una liturgia fastosa, non un messia trionfante... No, Gesù è un messia in croce, un uomo crocifisso!
Ecco il luogo della gloria di Dio, ecco la croce che è contestazione di ogni gloria mondana... Il quarto Vangelo capovolge il nostro modo di pensare e fa di uno strumento di morte, la croce, uno strumento per donare la vita, per mostrare amore e vivere l’amore fino all’estremo!
Dov’è la gloria di Dio?  Dove Dio ha veramente  peso nella storia? Chi dobbiamo adorare? Un crocifisso, un uomo vittima degli ingiusti, un uomo che ha vissuto secondo la volontà di Dio. Ecco l’uomo! Ecco dove sta la gloria!
Enzo Bianchi
 
ONORE AL MERITO (E MENO AL SUCCESSO)
«La solida gloria – scrive Cicerone – è la concorde lode (consentiens laus) degli onesti, la voce incorrotta di chi sa ben giudicare della virtù che si segnala, essa risponde alla virtù, quasi ne fosse l’eco». Ora, proprio perché si accompagna alla virtù «non deve essere respinta dagli onesti (non est bonis viris repudianda)». Stando al testo di Cicerone, si può dire che virtù e lode se non coincidono certamente si implicano, quasi a dire che la gloria reclama la lode e la lode celebra la gloria. Ora, la gloria la si celebra in quanto pubblica: si manifesta, infatti, nelle azioni e nelle opere con cui gli uomini affermano il loro valore. La lode è, dunque, il consenso concorde che riconosce quel valore e lo canta (questo il significato proprio di lode). Per tal via, lo amplia fino a renderlo universale, lo eleva a esempio da imitare perché di per sé degno e perfino indipendentemente dalla persona in cui per cui si è realizzato. Si può, dunque, dire che nella lode si celebra la gloria come chiaramente espresso dal verbo «glorificare». Non a caso il luogo originario della lode è religioso: si glorificano le divinità, si innalzano loro canti di lode per il bene che hanno largito agli uomini. E per la medesima ragione si rendono lodi agli uomini per le loro imprese difficili e vittoriose; o, ancor più, per chi ha rischiato la vita – o anche l’ha persa – per il perseguimento di un bene superiore. In questo caso la lode non solo rende – come s’usa dire – onore al merito (e quindi al singolo che lo merita), ma celebrando l’impresa mostra a tutti come ognuno debba, per suo conto, rendersi sempre e in ogni caso degno di onore, salvaguardando la propria dignità e rispettando quella degli altri. Tuttavia la ricerca della propria gloria trova nella lode la sua vera e pubblica misura: infatti, mai nessuno sarà lodato se nel perseguimento del proprio successo si è servito e ha asservito gli altri recando loro nocumento. Se ne potranno magari apprezzare le competenze e le abilità, perciò potrà essere magari ammirato – spesso invidiato – ma mai lodato, perché la sua crescita non ha arrecato agli uomini nessun beneficio.  Non è detto che il perseguimento della propria gloria contraddica sempre al bene comune, anzi la realizzazione delle proprie qualità può ridondare a vantaggio di tutti: infatti un grande ricercatore, un uomo di scienza, un artista nel realizzare le sue doti dona di fatto agli altri, sempre che non sfrutti solo a suo vantaggio quel che ha ottenuto, misconoscendo che quel che ha raggiunto, per quanto bravo, non lo ha ottenuto da solo. Tuttavia, anche di fronte a una condotta egoistica sarebbe ingiusto non riconoscere il merito qualora vi sia qualità e valore; ma ciò non vuol dire affatto che il merito è di per sé degno di lode. Spesso, come direbbe Cicerone, molti si «ritrovano nel vuoto più totale (in summa inanitate versatur) e inseguono non già una figura ben delineata di virtù, ma un’immagine appena adombrata della gloria (adumbratam imaginem gloriae)». Purtroppo nel nostro mondo la lode ha cessato da tempo d’essere canto, ringraziamento, gioia collettiva. Non so con quanta frequenza, ma per molti versi sembra che la lode si sia mutata in ricerca del facile successo di cui è perfino difficile rilevare il fallimento perché spesso va fuori moda prima ancora che la sua parabola sia del tutto consumata. Ci fu un tempo in cui la gloria reclamava per sé l’immortalità; oggi pare che sia in larga pare rimpiazzata dalla vanagloria. Confondiamo la grandezza con il clamore, alla lode è subentrato il chiasso e come ben diceva Nietzsche abbiamo perso la capacità di venerare. Certo non tutti gli uomini hanno uguali capacità e quindi non tutti possono pervenire a pari altezze. Nella storia i grandi pensatori, scienziati, artisti, in breve i cosiddetti genî non sono pochi, ma sono certamente pochissimi rispetto al comune degli uomini; ora è di semplice buon senso riconoscere che gli uomini non sono affatto uguali, che in alcuni, per dirla con Manzoni, Dio ha voluto «una più vasta orma stampar »; o, per chi non crede, la natura ha raggiunto una più alta forma di perfezione. In questi casi la gloria non è tanto loro, ma coincide oggettivamente con ciò che hanno dato all’umanità e magari indipendentemente dalle più o meno generose intenzioni. La distanza tra loro e i cosiddetti uomini comuni è indiscutibile, ma a ben vedere quel che non cessiamo di celebrare è quell’opera che in modo del tutto impersonale si è rivelata feconda per l’umanità. Anzi, non celebriamo più nemmeno la loro opera, che è divenuta ormai un’evidenza. Piuttosto questa ricchezza – che a giusto titolo chiamiamo «patrimonio dell’umanità» – motiva, di fatto e per il fatto stesso d’esserci, ognuno a cimentarsi con ciò che è grande. Questo è invero degno di lode, indipendentemente dal risultato; perché se ci impegniamo fino in fondo in ciò che è in nostro potere, perfezioniamo noi stessi e contribuiamo al miglioramento della vita di tutti. La lode non celebra i gradi di eccellenza – o quanto meno non si limita a ciò –, piuttosto onora lo sforzo che ognuno fa per trarre il meglio da sé, che è poi alla portata di tutti. È quel insegna il Cantico delle creature: per Francesco d’Assisi Dio è degno di lode per la bontà della sua creazione; ma le cose sono buone perché hanno qualità proprie e capacità da portare da effetto. Ogni creatura è fatta in vista di un compito e ciò dagli elementi primi – aria, acqua, fuoco, terra – all’uomo. Ebbene ogni creatura rende lode a Dio se realizza ciò per cui è stata creata e in ciò diviene essa stessa degna di lode. In questa luce, appare chiaro che ogni creatura è parimenti da lodare e di qui il legame di fraternità – «frate sole, sora luna» e così avanti. Infatti se tutti si realizzano pienamente per quel che sono concorrono al bene di tutti. Anche per chi non fa riferimento ad alcun Dio questo modello resta parimenti valido: la natura glorifica se stessa in ogni ente per quel tanto che li rende a loro modo e diversamente tutti capaci di bene. Ebbene, è proprio nel realizzare ciò per cui si è fatti (e per cosa si è fatti bisogna capirlo) che si contrasta sul campo il male e insieme ci si scambia e ricambia il bene. Di qui un reciproco rendersi grazie, un comune inno di lode, una festa ove la stessa morte – non espulsa dal ciclo della vita – appare non più nemica, ma sorella. Arduo tutto questo, ma non impossibile. «Nietzsche diceva che abbiamo perso la capacità di venerare: confondiamo la grandezza con il clamore, alla lode è subentrato il chiasso Ci fu un tempo in cui la fama reclamava per sé l'immortalità; oggi pare rimpiazzata dalla vanagloria»  
Salvatore Natoli 
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