sabato 1 agosto 2009
Al centro di «DuemilaNOve», il nuovo spettacolo degli abitanti del borgo senese di Monticchiello. Messa in scena graffiante e ricca di idee, ottimamente interpretata tanto dai veterani dell’«autodramma».
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La sera è mite. E quando si fa buio e le stelle appaiono in cielo, nella medioevale piazzetta del paese il rito può incomincia­re. Un rito che sembra anti­chissimo, e così non è. Può infatti apparire incredibile, ma è in fondo così giovane, a­nagraficamente, quella che sembra una delle nostre tra­dizioni teatrali più antiche: il Teatro Povero di Montic­chiello. Una tradizione così segnata nella sua particola­rità e così robusta per quegli inconfondibili caratteri che la contraddistinguono nel panorama italiano. Da quat­tro decenni e più (nacque nel 1967, e fu quasi una scom­messa) gli abitanti del borgo toscano chiuso nelle sue mu­ra merlate (trecento perso­ne) preparano lungo l’inver­no tedioso un canovaccio di spettacolo sul quale nei me­si successivi la comunità tut­ta unita lavora con fervore e passione alla sua realizzazio­ne sotto la guida di quello straordinario personaggio, la vera anima dell’operazione, che è Andrea Cresti. Per pre­sentare poi nel cuore dell’e­state a se stessi, agli abitanti dei dintorni e soprattutto ai turisti in pellegrinaggio nel­la magica Val d’Orcia, quello che è un vero «autodram­ma », come ebbe a definirlo fin dagli inizi Giorgio Strehler. Un «autodramma» che da sempre ha il suo fulcro in un tema particolare e quanto mai vitale che crea l’interes­se e determina il successo. Mai però tradendo la memo­ria storica. Semmai intrec­ciandola e confrontandola con la realtà di oggi. Come avviene, e con ancora mag­giore verità e forza, anche questa volta – il titolo scelto, secco e pregnante, è Duemi­laNOve (attenzione, quel NO in maiuscolo ha significato i­ronico) – dove tutta l’atten­zione è puntata proprio sul tema scottante di quella cri­si che tutti ci attanaglia. Cri­si economica, ma anche cri­si di valori morali e che non trascura nemmeno il picco­lo «pueblo» monticchiellese. E sarà per la sua scottante te­matica, ma, diciamolo subi­to, anche perché il suo corpo scenico questa volta si con­nette in maniera particolar­mente stretta e funzionale a quanto si vuole raccontare, lo spettacolo di quest’anno ci pare ancor più riuscito e ricco di suggestioni. Nutrito di episodi di spicciola vita quotidiana, di sapide battu­te, corre rapido, senza in­ciampi e riesce a mordere in continuazione, giocato com’è su un registro voluta­mente grottesco. Tutta l’azione ruota intorno a una piccola, geniale trovata. Siamo in tempo di crisi? Co­me combatterla? Come ri­sparmiare? Ecco spuntare (il potere, lo Stato a suggerire ancora?) una misteriosa «stu­fa economica» come tante che molti potrebbero avere avuto in casa dai nonni, pronta a bruciare un fuoco a­pocalittico e che viene pre­sentata come un necessario adempimento di un’ambi­gua «solidarietà nazionale». E allora tutti – scettici e no – a darsi da fare tinteggiando magari di nuovo la casa, per ospitare quell’oggetto pieno di virtù. E lo spettacolo a scoppiettare di momenti fan­tasiosi come le fiamme invi­sibili di quel marchingegno che in realtà è solo un bluff. Ancora una volta gli attori monticchiellesi sono bravis­simi nel dar fuoco alle pol­veri del loro «autodramma». Sanno essere smaliziati co­me professionisti. Gli uomi­ni come le donne. I veterani (non manca il «mitico» Alpo Mangiavacchi, questa volta in un personaggio solo mu­to, un vecchietto in balia di u­na badante russa e che in russo si esprime portando un’ulteriore nota di colore). Giovani già provvisti di ma­turità e temperamento tali da sembrare pronti ad assicura­re il futuro di questo Teatro Povero per definizione ma ricco di idee. E che ogni an­no ci mostra un’Italia che an­cora crede in se stessa. Rap­presentazioni fino al 14 ago­sto.
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