giovedì 14 aprile 2022
«Sono stato anch’io bambino tra le bombe Katya, sono lì con te». È la poesia scritta di getto da Ben Okri per una bambina ucraina. «La poesia della pace sarà il sorriso e le risate dei bambini»
Lo scrittore Ben Okri

Lo scrittore Ben Okri - London Book Fair

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«Tutto questo finirà, passerà. Sono stato anch’io bambino tra le bombe. Katya, sono lì con te». La poesia composta da Ben Okri per un’ucraina di sette anni nascosta in un bunker di Kiev è una promessa di pace. Di un mondo nuovo, prossimo ad arrivare, «fedele solo alla bellezza e alla sofferenza di un cuore di bambina». Lo scrittore di origine nigeriana, vincitore nel 1991 del Booker Prize con il romanzo La via della fame, autore di racconti finiti nell’antologia della narrativa di Peter Ackroyd, ne parla a margine della London Book Fair. Spiega che i versi per Katya sono nati, all’improvviso, dall’emozione 'incontenibile' che la storia (vera) della piccola gli ha fatto esplodere nell’anima. Anche la sua è segnata da un conflitto: quello che ha dilaniato la Nigeria alla fine degli anni 60. Figlio di un uomo di etnia Urhobo e di una donna Igbo, Okri, tornato da Londra nella sua terra proprio alla vigilia dello scontro armato, aveva allora undici anni.

Crede che l’esperienza della guerra abbia in qualche modo influenzato, negli anni a seguire, la sua vocazione letteraria e il suo modo di scrivere?

Il conflitto mi ha portato a pormi domande sulla vita e, cosa non secondaria, sul linguaggio. Sono cresciuto con l’idea che la lingua si riceve, senza fare troppe questioni: l’essenziale è capirla e utilizzarla come si deve. Ciò però finisce con l’intrappolare la gente nelle bugie che gli vengono raccontate dai politici. Che un popolo, per esempio, ha più valore rispetto a un altro. Lo fanno tutti. È così che nascono le guerre. Dalle bugie. Quella in Nigeria è entrata dentro casa mia, con mio padre da un lato e mia madre dall’altro. Gli interrogativi nati un quel contesto mi hanno fatto riflettere anche sul linguaggio, sulle menzogne che veicolava. La poesia è arrivata così. Portando a galla un dono che, comunque, credo di avere per natura.

Cosa ha provato guardando le immagini di un luogo simbolo della cultura, come il teatro di Mariupol, in Ucraina, diventare scenario di guerra?

Sono rimasto molto colpito. Ho trovato che fosse molto greco. La guerra è di per sé un teatro, il più macabro di tutti. Ma mi sono sforzato di pensare alla vita che ha continuato a muoversi in quegli spazi adibiti a bunker prima che venissero bombardati. Se un teatro può diventare rifugio, ho pensato, allora anche un rifugio può diventare teatro.

Quale crede sia il ruolo della cultura e dell’arte in tempo di guerra?

La funzione della cultura durante le crisi, in generale, trattasi di guerra o di pandemia, è mantenere in vita lo spirito umano. Dare alle persone un’occasione per ricordare chi sono. Da dove vengono e dove vanno. Portare alla memoria quello che è stato già vissuto nei disastri di cent’anni prima. Attorcigliare il filo d’oro della verità che li lega uno all’altro.

Pensa che alcune forme d’arte siano in questo più efficaci di altre?

Non credo si possa parlare di grado di efficacia. La capacità di riconnettere l’uomo al suo essere più autentico dipende anche da chi si accosta all’arte e da come, silenziosamente, in modo naturale, la riceve. Una delle cose più potenti che mi è rimasta, per esempio, della pandemia di Covid è un’aria cantata da un uomo, in Italia, dal balcone della sua casa. Quanta forza e bellezza in un canto che nasce da paura, morte, dolore! Musica che trasuda sopravvivenza, voglia di farcela. Ma può essere anche poesia, letteratura, cinema, teatro.

Pensa che un poeta possa raccontare la guerra meglio di un giornalista?

Credo che i giornalisti contribuiscano talvolta, seppure involontariamente, ad offuscare la verità. L’ho notato soprattutto negli ultimi anni. I reporter sono diventati malgrado loro il mezzo con cui la verità viene distorta. Al punto che è sempre più difficile capire cosa è vero e cosa non lo è. Ci è voluto del tempo, per esempio, prima che la stampa arrivasse a smascherare le bugie di Donald Trump quando era alla Casa Bianca. Quando poi sono venute fuori era troppo tardi. Ora, credo che i poeti possano fare un lavoro diverso, migliore, perché non devono rispondere immediatamente alle domande come avviene nel giornalismo. La poesia ha più tempo per ascoltare. Credo anche che il grande pubblico abbia bisogno di recepire il racconto della realtà non in modo diretto, sfrontato e urlato, come fanno i media, ma attraverso la mediazione meditata. Come di uno specchio che nel riflettere l’immagine del mondo è capace anche di attutire il frastuono dinanzi a cui molti, invece, preferiscono tapparsi le orecchie.

Fame e disperazione possono essere curate con la poesia?

No, non possono. A dire il vero non sono nemmeno sicuro che la poesia possa curare qualcosa. So per certo, però, che può, semplicemente, risvegliare le persone, richiamarle alla loro u- manità. Abbiamo bisogno solo di questo. Penso che la metà dei problemi di questo mondo potrebbe essere risolta se solo le persone diventassero più consapevoli del proprio essere uomini. La poesia può aiutare in questo. Direi, piuttosto, che è uno strumento indiretto per prevenire le cause di una guerra, quindi anche fame e disperazione.

Qual è la sua ricetta per una cultura di pace?

Dialogo e ascolto. Comprensione e condivisione. Non rigidità, ma note di relativismo. Questo aiuta a superare le definizioni incrostate di 'noi' e 'voi', a capire che ci sono tanti modi in cui l’uomo può stare al mondo. La cultura stessa può diventare strumento di guerra quando interpreta un solo modo di essere e pensare, quando diventa fissazione delle identità.

Scriverà una poesia sulla pace tra Russia e Ucraina quando, si spera presto, avverrà?

La poesia della pace sarà il sorriso e le risate dei bambini, delle feste di paese, delle canzoni, della quotidianità ritrovata. La pace sarà celebrata nella vita di tutti i giorni, quella che non ha necessariamente bisogno di poesia: è bella perché normale.

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