venerdì 19 marzo 2021
Da Piccolomini a Bergoglio, tanti Papi hanno meditato le sue opere. Leone XIII “tradusse” la sua visione nella Dottrina sociale, Paolo VI vi attinse per mettere a punto l’umanesimo cristiano
Papa Paolo VI

Papa Paolo VI - Archivio

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«Natura Ecclesiae forma est Ecclesiae. […] Forma autem Ecclesiae nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa » ( Monarchia, III, XIV,2-4). Le parole di Dante che concludono la sua riflessione sul ruolo del successore di Pietro introducono al culto dell’Alighieri, che caratterizza snodi determinanti della storia del papato. Settecento anni di storia papale che possono essere allegorizzati nella Croce: il senso verticale è costituito dagli eventi diacronici del “sistema Dante”, in cui ciascun dantismo influenza quello successivo, mentre il senso orizzontale riguarda gli eventi sincronici del “sistema Dante”, in cui il dantismo è condizionato dal momento storico in cui il singolo Papa vive ed opera. Intendo per “sistema Dante” l’idea profetica di Chiesa, secondo la quale il sacerdotium deve annunciare le verità della Fede, regolare la vita secondo i precetti cristiani, guidare alla santità, laddove l’imperium deve regolamentare le cose terrene: idea profetica perché, nella modernità, il riconoscimento dell’ortodossia di Dante comincia con il 1870, cioè con la fine della potestas directa in temporalibus. Subito dopo la morte di Dante, l’auspicio profetico aveva causato la messa all’Indice del Monarchia.

Eppure qualche decennio dopo, la diffusione e la conoscenza della Commedia determinarono un cambio di prospettiva. Proprio al Concilio di Costanza (1414-1418), dove si metteva in discussione l’autorità assoluta del Papa romano, il vescovo Giovanni Bertoldi da Serravalle per diffondere i valori morali e teologici dell’opera tra i fedeli produsse la prima traduzione in latino della Commedia (1416), con commento denso di richiami danteschi sul rinnovamento ecclesiale. In quel-l’atmosfera di riforma si genera il primo grande esempio di dantismo papale con Enea Silvio Piccolomini, Pio II (1458-1464), la cui formazione umanistica si intreccia con il cursus honorum ecclesiastico e diplomatico. Il Concilio di Basilea (1431-1445), durante il quale, nel 1436, erano stati chiamati i dantisti Francesco Filelfo e Antonio da Rho, vede il futuro Pio II al servizio di Kaspar Schick, cancelliere imperiale alla corte di Federico III. L’afflato riformatore di Dante rivive nell’opera e negli scritti di Pio II: da esso deriva la condanna della corruzione delle corti, il sostegno all’autorità imperiale e, soprattutto, il potenziamento del ruolo pastorale del Papa. Due secoli dopo, la culla del dantismo senese accoglie un altro papa di straordinaria genialità e spiritualità: Fabio Chigi, Alessandro VII (1655-1667). Il dantismo di Alessandro VII si contestualizza nell’estetica o teologia della Controriforma.

Già il papato Barberini aveva trasformato Roma in un vivace laboratorio politico-culturale, ma Alessandro VII porta a compimento l’immagine della Roma moderna, avvalendosi di artisti come Bernini e Borromini. Interprete della spiritualità papale, sulle orme di Dante, è il cardinale Pietro Sforza Pallavicino, per il suo audace compromesso tra scolastica e naturalismo, nell’accordo della poetica al sensismo aristotelico, mentre la filologia si esprime in Federico Ubaldini, che lascia una mole immensa di appunti sulla lingua e lo stile della Commedia. I due secoli che separano Alessandro VII da Leone XIII segnano lo scontro, che gradatamente si trasformerà in incontro, tra Chiesa e modernità. La cultura illuminista mette in discussione lo Stato pontificio. La risposta è il Concilio Vaticano I (1869-1870), che riafferma con la costituzione Pastor Aeternus il primato e l’infallibilità del Papa nella definizione del dogma, ma il successore di Pio IX, Leone XIII, spalanca le porte al dantismo papale contemporaneo. Il dantismo leoniano da una parte coincide con la fine del potere temporale dei Papi, dall’altra si “traduce” nella Dottrina sociale della Chiesa, espressa nella Rerum novarum (1891); è un legame ben ricostruito da Giacomo Poletto in La riforma sociale di Leone XIII e la dottrina di Dante Alighieri (1898).

Nella Rerum novarum si riconosce come legittima e necessaria la separazione e l’autonomia dei due poteri, lo spirituale e il temporale, entrambi di origine divina. Arriviamo così al pieno riconoscimento dell’ortodossia dantesca da parte di Benedetto XV (1914-1922) con l’enciclica In praeclara summorum litterarum artiumque saeculo sexto exeunte ab obitu Dantis Aligherii (1921). Scritta in occasione del VI centenario dantesco, cita diffusamente Monarchia, Epistolae e Convivio. Benedetto XV ne coglie la concreta attualità, relativa al momento storico in cui è inserito il suo magistero. Contro lo sfacelo morale, etico e politico dell’Europa è necessario rileggere il messaggio di Dante, esaltando la sua Fede: «Avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati» (§XIV).

La totalizzante prospettiva introduce al dantismo di Paolo VI, punto d’approdo del culto di Dante e chiave di volta del Concilio Vaticano II. È lecito affermarlo, alla luce della Lumen gentium, se si considera che la lettera apostolica Altissimi Cantus septimo exeunte saeculo a Dantis Alighieri ortu fu pubblicata il 7 dicembre 1965, vigilia della chiusura ufficiale del Concilio, quasi a far coincidere, nel VI centenario della nascita, l’afflato di rinnovamento del Vaticano II con l’afflato profetico e poetico della Commedia. Il dantismo è una fonte a cui Paolo VI attinge per mettere a punto il nucleo tematico centrale del suo magistero, l’umanesimo cristiano. Paolo VI accede direttamente all’umanesimo cristiano di Dante poiché ne percepisce la quintessenza: l’incontro tra la tradizione greco-latina con quella ebraico-cristiana, per valorizzare l’umano nel divino e il divino nell’umano.

L’idea stessa di cultura di papa Montini, nel suo dialogo con la modernità e nello sviluppo dell’eredità del Vaticano II, aderisce in toto alle ragioni profonde della spiritualità di Dante: «Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per esser ad acquisto d’oro usata / ma per acquisto d’esto viver lieto / e Sisto e Pio e Calisto e Urbano / sparser lo sangue dopo molto fleto». ( Paradiso, XXVII, 40-45). È un’idea di Chiesa in cui, teologicamente, il Papa è pastore, come ha auspicato papa Francesco nella Messa Crismale del 28 marzo 2013: «Questo vi chiedo: di essere pastori con “l’odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini», poiché tale è il ruolo salvifico del Papa: «Avete il novo e ’l vecchio Testamento, / e ’l pastor della Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento» ( Paradiso, V, 76-78).

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