mercoledì 20 novembre 2019
A colloquio col teologo Massimo Naro sullo scrittore siciliano a trent'anni dalla scomparsa: «Va riletto alla luce di un pensiero più che mai attuale: fare del Mediterraneo il cuore del Continente»
Leonardo Sciascia

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C’è la Sicilia “babba”, ossia quella mite a tal punto da sembrare quasi stupida; c’è quella “furba”, ma non astuta, delle malefatte, della violenza e della criminalità; c’è quella che vive con l’ansia della “roba” di verghiana memoria, sempre alle prese con i problemi del lavoro; c’è poi l’isola “laboratorio politico” di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira e quella di Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Nunzio Zago e Leonardo Sciascia. Lo scrittore di Racalmuto è stato capace di cogliere tutte le sfaccettature di una terra complessa a tratti «contradditoria ed estrema», come lui stesso la definisce in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia. Con don Massimo Naro, docente alla Facoltà teologica di Sicilia e direttore del Centro studi “Cammarata” di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, “Avvenire” riflette sulla figura di Sciascia a trent’anni dalla morte, avvenuta a Palermo il 20 novembre 1989.

Il pensiero corre proprio al suo funerale, celebrato in chiesa nonostante egli non fosse mai stato un 'frequentatore di parrocchie'. Quale fu il suo rapporto con la fede?

Nella Bibbia l’esperienza credente è descritta similmente a come i pensatori greci descrivevano la loro meraviglia, cioè l’attitudine a interrogarsi sul perché dell’essere e dell’esistere, sull’intreccio tra vita e morte, sull’urgenza della giustizia e sulla bellezza della verità. Si pensi all’icona lucana della Vergine sorpresa dall’Angelo a Nazaret, che si chiede come sia possibile ciò che le è annunciato, oppure all’icona matteana impersonata da san Giuseppe che riceve in sogno la risposta alle domande che lo tormentavano. La meraviglia è costitutivamente fiduciale, altrimenti degenera in scandalo. Sciascia, che si dichiarava refrattario al cattolicesimo ammettendo però di subire il fascino di Cristo, sperimentò certamente l’ebbrezza della meraviglia, che nel suo caso significava tematizzare letterariamente le “domande radicali”, quelle che ognuno si pone nell’intimo e le cui risposte non sono mai scontate né ovvie e spesso finiscono per essere, dentro la nostra coscienza, inopinate e impreviste, sovreccedendo rispetto a ciò che noi stessi avremmo voluto rispondere, oltrepassando la soluzione che eravamo disposti ad accreditare come l’unica possibile. Reputo che a Sciascia sia avvenuto questo: a forza di interrogarsi, radicalmente, cioè sul serio, non per finta, non preconfezionando risposte, riuscì a ipotizzare nuove risposte rispetto a quelle che si era sempre date e a intuire nuove prospettive, lungo le quali intravedere spazi più vasti della piccolezza umana.

Un tema affrontato da Sciascia come scrittore impegnato a livello civile è quello della mafia. Da rifiutare e combattere indubbiamente come organizzazione criminale, ma prima ancora come deficit culturale. È d’accordo?

Senz’altro. Purtroppo quest’intuizione è rimasta schiacciata sotto il peso della polemica sui professionisti dell’antimafia. Eppure Sciascia l’aveva espressa già nel 1972, pubblicando la sua Storia della mafianel rotocalco mondadoriano “Storia Illustrata”: una filosofia più che una storia della mafia, redatta a partire dalla spiegazione etimologica del termine “maffia” per arrivare a cogliere il senso autentico del fatto criminoso a cui la parola rimanda. Che, per l’autore de Il giorno della civetta, non sta – come pretendeva il sicilianismo alla Giuseppe Pitrè – nella «coscienza del proprio essere» o nell’«esagerato concetto di sé» che indurrebbe certi individui alla mera «spavalderia », all’«amor proprio», al «senso dell’onore», bensì in un’atmosfera sociale in cui le singole responsabilità s’intrecciano sistemicamente e s’alleano delittuosamente, parlando l’iniziatica koiné del ricatto e del compromesso, del calcolo economico, del tornaconto po-litico, della ragion di Stato, dell’assassinio e persino della strage. Retaggio di gerarchie abusive e di burocrazie corrotte, stratificatesi l’una sull’altra nei secoli del feudalesimo a sbarrare il passo alla modernità, per Sciascia tuttavia la mafia in Sicilia non era la mafia dei siciliani: era, piuttosto, la mafia dei mafiosi, degli “zii” come Calogero Vizzini e Genco Russo, oggi potremmo citare tanti altri nomi sinistri, contro cui i siciliani migliori sono chiamati a reagire non con le stesse armi da loro impugnate, ma con la scrittura e con la lettura. Forse proprio a Scia- scia e a questa sua lezione pensava Bufalino quando – immaginando una strategia per arginare il fenomeno mafioso in Sicilia – auspicava l’intervento di un esercito di maestri elementari.

Nel romanzo Il cavaliere e la morte Sciascia ha scritto della «difficoltà di essere siciliano». E in altre sue pagine ha toccato il tema della “sicilitudine”. Intendeva parlare di una condizione universale o di una situazione etnoantropologica?

Certamente per Sciascia l’essere siciliani poteva assurgere a cifra dell’esistenza in quanto tale. Non a caso parlava della Sicilia come metafora del mondo. La difficoltà d’essere siciliani equivarrebbe, in tal caso, alla difficoltà d’essere umani. Ma pure, per Sciascia, la sicilitudine era la connotazione peculiare della produzione letteraria siciliana, che ha un’indole interrogante. Pirandello, autore molto caro a Sciascia, l’aveva espresso bene in una sua novella: «Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio e fru-fru, fru-fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario per acquistare più profonda e intera la coscienza del loro dolore». Nel resto d’Europa, delle domande circa il senso dell’esistenza e sulla destinazione ultima dell’uomo si sono comunemente incaricati i filosofi. In Sicilia queste domande sono state assunte nelle pagine degli scrittori. Qui sono stati soprattutto loro a declinare quello che Franco Cassano ha chiamato il “pensiero meridiano”.

Potremmo dire che emerge, in questa prospettiva, il ritratto dello stesso Sciascia, specialmente se ricordiamo un personaggio come Candido Munafò, protagonista di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia?

Certamente: Munafò sembra un alter ego di Sciascia, fautore dell’ideale che lo scrittore stesso coltivava, quello cioè di far partire dall’ombelico del Mediterraneo la riscossa europea contro ogni sorta di retrivo conservatorismo politico e religioso.

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