sabato 27 febbraio 2021
Nel saggio-choc “Impunità di gregge” Daniela Simonetti fa luce sugli «almeno 300» casi di giovani atleti vittime di violenze psico-fisiche da parte di allenatori e dirigenti spesso già denunciati
Il coach olimpico John Geddert in una foto del 2012. Si è suicidato alla vigilia del processo in cui doveva rispondere di violenza sessuale

Il coach olimpico John Geddert in una foto del 2012. Si è suicidato alla vigilia del processo in cui doveva rispondere di violenza sessuale - Ansa

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Il mostro non ha paura, colpisce in maniera seriale, con la sicumera dell’intoccabile. E spesso la fa franca, perché viene coperto da una massa di ignavi che va a costituire «l’impunità di gregge». Così si intitola anche il saggio-choc di Daniela Simonetti, Impunità di gregge. Sesso, bugie e omertà nel mondo dello sport (Chiarelettere. Pagine 228. Euro 16,00). Un allarmante libro-verità (genitori alzate le antenne), assai coraggioso per chi vive e scrive nella Repubblica degli omertosi. In molti non gradiranno il “dossier” sui responsabili di questa drammatica fenomenologia, in cui «il ruolo dell’istruttore o del dirigente di società sportiva riveste una notevole incidenza nel favorire un simile, turpe reato», denunciava Enrico Cataldi quando era a capo della superprocura del Coni.

Una piaga sociale che la Simonetti ha indagato con dovizia di dettagli, correndo qualche rischio, da autentica giornalista d’inchiesta. «Non me la sono passata molto bene... ma la mia è una battaglia di civiltà contro l’omertà e il proliferare dei “Nassar” di casa nostra». Tradotto per chi non mastica lo scandalismo: così come nel fatato mondo di Hollywood esiste, purtroppo, un Harvey Weinstein (il violentatore compulsivo di star e starlette), anche nella galassia olimpica sul gradino più alto del podio mostruoso ha troneggiato il dottor Larry Nassar.

«La sua è la madre di tutte le storie: cinquecento vittime di abusi e violenze sessuali, un massimo di trecentosessant’anni di carcere, oltre 800 milioni di dollari per le cause risarcitorie... sono le macerie lasciate da trent’anni di connivenze e omertà e insabbiamenti», scrive la Simonetti. Questo “Dottor Jekyll”, ex medico della Michigan State University e della nazionale di ginnastica artistica degli Stati Uniti, è stato condannato al carcere a vita solo dopo che per decenni aveva stuprato, nel corpo e nell’anima, intere generazioni di bambine americane. È di ieri la notizia che il sodale di Nassar, il coach olimpico John Geddert, si è suicidato e lo ha fatto proprio alla vigilia del processo che si stava per aprire a suo carico nel tribunale della contea di Eaton. Geddert doveva rispondere dell’accusa di violenza sessuale, traffico di esseri umani e organizzazione criminale.

E nelle stesse ore in cui il cadavere del famelico Geddert è stato trovato in una piazzola di sosta, a Londra 17 ginnaste, tra cui tre olimpioniche, con una lettera lanciano una class action contro la federazione britannica per i «sistematici abusi fisici e psicologici » perpetrati dai loro allenatori. In Francia una commissione d’inchiesta ha aperto 94 procedimenti relativi a tecnici sportivi di varie federazioni. Da noi i casi censiti, emersi da denunce (trattasi di cuori impavidi) – avvenute tra il 2014 e il 2019 – sono circa 90. Il primato, manco a dirlo, spetta al calcio con 21 casi, seguito da equitazione 16 e il volley 13.

«Applicando il numero oscuro i casi sarebbero almeno 300», spiega l’autrice di Impunità di gregge. Fenomeno sottostimato che si allarga con la complicità di federazioni indifferenti alla problematica e un sistema che approfitta delle «maglie larghe della giustizia sportiva». Federazioni che dovrebbero essere più attente ai loro 4 milioni e passa di tesserati, all’interno delle quali il 28,2% sono donne e gli under 18 sfiorano il 60% della popolazione agonistica e amatoriale. Nelle 63.517 società sparse sul territorio nazionale ci sono oltre un milione di operatori sportivi: parliamo di dirigenti, allenatori, medici, massaggiatori... e tra questi si nascondono quei mostri, talora insospettabili, che vanno stanati, e possibilmente prontamente denunciati.

L’elenco di questi “distruttori” di giovani vite non è sterminato (non lo facciamo per scelta, leggete il libro e mandate a memoria i nomi dei pericoli pubblici nominati) solo perché chi ha subito violenze, specie in età adolescenziale, ha paura prima di tutto a rinnegare il coach che fino a quel momento era stato il suo mito, il suo punto di riferimento, spesso più o quanto i propri genitori. L’abuso, per dinamiche omertose, viene accostato al doping dall’ex campione olimpico del ciclismo (ad Atlanta ’96) Silvio Martinello coinvolto nella lotta a quei personaggi che infangano il suo movimento. Vedi la vicenda dell’ex ciclista azzurra Maila Andreotti traumaticamente costretta a scendere dalla bicicletta come ha raccontato suo padre tempo fa al nostro Pier Augusto Stagi.

La pallavolo, si sa, è la città delle donne: il 77% sono tesserate, atlete a fortissimo rischio per la presenza di allenatori che anche se già condannati per pedofilia hanno continuato impunemente ad allenare. «Da segnalare l’azione del Consorzio Vero Volley che ha introdotto la figura del “doppio coach”, ha avviato corsi di formazione sul tema delle molestie e messo a punto un decalogo con i comportamenti da tenere nei riguardi dei minori, firmato dagli allenatori che devono produrre i certificati penali e dei carichi pendenti», continua la Simonetti. La Federazione italiana di Baseball e Softball si è costituita parte civile per i reati che attengono alla sfera della violenza sessuale e adesso richiede ai suoi tecnici e dirigenti certificati penali a cadenza semestrale.

«Se il certificato penale fosse entrato in vigore prima, forse il “mister” «Gianfranco Dugo, 56 anni, arrestato nel marzo scorso, non avrebbe potuto molestare i giovanissimi calciatori di sei squadre piemontesi e lombarde i cui dirigenti ignoravano le sue tre condanne per detenzione di materiale pedopornografico e atti osceni su minori», ha scritto Marco Bonarrigo sul Corriere della Sera nel gennaio 2018. Siamo di fronte allo scenario inquietante dei “compagni di merende” che scelgono le proprie vittime. L’intoccabilità dell’allenatore dipende anche dal suo score vincente. Nel football americano di casa nostra, Maurizio Vismara rappresentava un guru indiscusso. Un regime ducesco il suo, in campo e fuori, dagli anni ’80 fino al 2 dicembre 2011 quando l’allenatore della Seamen Milano è stato arrestato per «violenza sessuale di gruppo», poi modificata a violenza sessuale su minore e per questo condannato, nel 2014, a 3 anni di reclusione.

Per il capo della squadra mobile Alessandro Giuliano, uno abituato a combattere la peggiore delle omertà – è il figlio di Boris Giuliano, assassinato dalla mafia a Palermo nel 1979 – sul caso Vismara sentenziò: «Riteniamo che ci possano essere altri fatti non denunciati». La Federazione Football americano ha radiato Vismara e si è costituita parte civile. Ma le denunce anche da questi campi continuano ad arrivare in ritardo, mentre il mostro continua ad esercitare il suo codice perverso, fatto di nonnismo e di manipolazione fisica e psicologica. E lo fa indisturbato, forte anche della pregiudiziale sessista che, in sport come il calcio, vuole che «la partita è «maschia» o che il «football non è uno sport per ballerine».

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