giovedì 20 giugno 2013
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L’Italia che ce l’aveva fatta. Il Miracolo italiano si è autodesignato come il giusto destino giusto di Risorgimento e Resistenza, trionfo di una nazione finalmente rialzatasi e per sempre. Non è stato così e lo si è scoperto presto. Vista da questi giorni faticosamente decadenti, l’euforia e la carica di speranza degli anni del boom sembrano appartenere a un’era irripetibile. Eppure l’idea che sta alla base di La Rinascita. Storia dell’Italia che ce l’ha fatta, mostra che si apre venerdì ad Asti (fino al 3 novembre) vuole proprio dimostrare l’opposto: che negli eventi e nei fenomeni che contrassegnarono quei due decenni e mezzo del dopoguerra ci sono gli indizi per preconizzare l’Italia che ce la farà. Idea per altro nell’aria (è quella del Padiglione Italia all’ultima Biennale Architettura) che qui però è sviluppata tentando di ricostruire con approccio multidisciplinare l’accumularsi tumultuoso del Miracolo italiano. Design, architettura, arte, cinema, radio, televisione. E, trasversale e onnipresente, la pubblicità. È il ritratto di un’Italia che sull’onda della Liberazione scopre il tempo libero e che, politicamente lacerata, si rinsalda attorno alla Lambretta e alla tivù. «Un ventennio- scrive Davide Rampello in catalogo - in cui l’Italia ha donato al mondo intuizioni scientifiche e tecnologiche, ha inventato un nuovo modo di concepire la moda e il design, ha costruito, progettato, prodotto e generato futuro e progresso». Un Paese che aveva nella fame il suo carburante e oggi appare zavorrato dall’illusione della ricchezza. La comunicazione di massa di quegli anni proietta a posteriori l’immagine di una radiosa corsa senza ostacoli. Ma anche i dati Istat dicono che fra il 1948 e il 1963 il Pil cresce a ritmi del 6%. Se nel 1938 le autostrade ammontano a 479 chilometri, alla fine degli anni 70 si toccano i 4.000. Nel 1951 i diplomati erano il 3,3% della popolazione, nell’anno scolastico 1971-1972 è iscritto a una scuola superiore il 50,5% dei giovani. Ma ci sono Italie costrette a inseguire: nel Sud come nelle valli del Nord il miracolo tarda a compiersi. È un Paese non solo lanciato ma anche traumatizzato dal boom. Il mito del Made in Italy è legato soprattutto al design. L’introduzione delle materie plastiche (Natta nel 1963 si aggiudica il Nobel per la chimica grazie alla sintesi dei polimeri) ridisegna i paesaggi domestici. O li sogna. Perché, accanto ai progetti avveniristici e programmaticamente attenti a «un realismo popolare» che però, scriveva Andrea Branzi, non avevano «nessun riferimento con i comportamenti reali degli utenti», le grandi aziende producono arredamenti standard, agganciati alla sicurezza della tradizione. Insomma il design è sì il fiore all’occhiello del boom, ma è soprattutto la locomotiva promozionale di una realtà più complessa e pesante. È forse l’Italia più vera, quella che sfugge alle storie specialistiche che hanno preferito «l’epica dello straordinario - come scrive Sergio Pace riguardo all’architettura, in un giudizio ampiamente condivisibile ed estensibile - al racconto dell’ordinario», in cui «l’insostenibile quantità» vince sulle «raffinata qualità». Così il cinema verace del boom è forse più la commedia di pronto consumo che Fellini e Antonioni, la musica la diatriba tra Melodici e Urlatori più che l’istituto di fonologia di Berio e Maderna. Coesistono, si toccano ma faticano a intrecciarsi davvero. Giustamente la tv ha nel progetto di questa mostra un peso critico. Ma è esemplare il caso della partecipazione di John Cage a «Lascia a Raddoppia» in qualità di esperto micologo (lo era davvero), letto come «un cortocircuito - scrive ancora Rampello - il segnale che è scattato un mutamento evidente». Il segnale fu tanto chiaro che i video originali sono andati perduti. Le cronache riportano di Cage che dopo aver risposto alle domande suona radio, frullatori e pianoforti preparati davanti a un basito Mike Bongiorno («esibizioni più o meno strambe di musica strambissima» le definì) e a un pubblico che ride per autodifesa. La meteora Cage a «Lascia o Raddoppia» non genera un cortocircuito perché non è in grado di scatenare l’incendio. Non fonde davvero cultura "alta" e "bassa", se queste definizioni hanno un senso. Le due restano, in Italia, tra loro avulse. La performance dada negli studi di Mike rimane un fatto spurio. Un isolotto curioso, segnato solo sulle carte dei navigatori più snob.
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