giovedì 22 settembre 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 si scatenò immediatamente una colossale quanto infruttuosa caccia ai complici dei dirottatori suicidi, ma dopo tre giorni, quando la Cia e l’Fbi resero pubblici i nomi degli attentatori, giunse un aiuto insperato da una sconosciuta compagnia dal nome impronunciabile: la Acxiom, nella cui sede, in Arkansas, erano – e sono – custoditi i dati sensibili del 96% degli americani, compresi i loro indirizzi, i nomi dei loro famigliari, gli acquisti effettuati con le loro carte di credito, la presenza o meno di un animale domestico, eccetera eccetera. La Acxiom riuscì quindi a fornire alle agenzie governative informazioni preziose su undici dei diciannove terroristi, informazioni che nessun altro possedeva.La Axciom lavora per tutte le principali carte di credito e molte grandi aziende commerciali, da Microsoft a Blockbuster, ma non produce niente: il suo obiettivo aziendale è offrire informazioni. Ogni frazione di secondo, i suoi calcolatori elaborano un’inimmaginabile quantità di dati, che vengono istantaneamente venduti a chiunque voglia fare della pubblicità davvero personalizzata. Tanto per fare un esempio, ogni volta che navighiamo su internet le pagine che visitiamo vengono monitorate e schedate, offrendo così un quadro molto preciso dei nostri gusti e delle nostre esigenze, che permetteranno ai gruppi commerciali online di offrirci i prodotti che incontreranno più facilmente il nostro gradimento.Questo è solo uno dei tanti esempi forniti da Eli Pariser, autore del recentissimo The Filter Bubble. What the Internet Is hiding from You (“La bolla-filtro. Quel che internet ti tiene nascosto”, Viking), che dimostra come, nell’era digitale, la riservatezza sia una chimera inesistente. La “bolla” del titolo è quella in cui entriamo ogni volta che accendiamo il computer: una bolla personalizzata, molto gradevole e confortevole, fatta su misura per ciascuno di noi: il problema è che nessuno ci ha avvertito della sua esistenza, e soprattutto nessuno sa cosa ci viene nascosto dalla stessa bolla, che ci impedisce di vedere fuori. Era il 4 dicembre 2009 quando un avviso piuttosto inconsueto apparve sulla pagina ufficiale di Google, il più diffuso motore di ricerca del mondo: annunciava che «da quel momento in poi, ogni ricerca sarebbe stata personalizzata». Pochi se ne accorsero, e ancor meno ne capirono l’importanza; eppure, in quel momento, il mondo di internet cambiò radicalmente. Da allora, ogni volta che digitiamo l’argomento di una ricerca su Google, i risultati che appaiono non sono più uguali per tutti, ma vengono selezionati secondo i gusti, le abitudini e le caratteristiche del singolo utente, la cui fisionomia è costantemente aggiornata dagli ininterrotti flussi di informazioni monitorati dall’uso della nostra macchina.Chi tutto sommato non si preoccupasse troppo del controllo commerciale dei nostri gusti e delle nostre abitudini dovrebbe invece cominciare a preoccuparsi del controllo delle informazioni che si sta verificando in parallelo, con la scrematura effettuata dai motori di ricerca dei flussi di notizie circolanti in Rete, come dimostra l’evoluzione del servizio Google News. Eli Pariser racconta con irritato stupore dell’estrema diversità dei risultati della medesima ricerca effettuata in Rete da lui e da un suo conoscente di opposte opinioni politiche: a ciascuno venivano forniti articoli e pagine web perfettamente in sintonia con le idee di ciascuno, che veniva così rafforzato nelle proprie convinzioni ed escluso da qualsiasi confronto dialettico. Ad esempio, nella primavera 2010, dopo il grave inquinamento da petrolio causato nel Golfo del Messico dalla British Petroleum, digitando “Bp” da due computer diversi, uno di un manager e l’altro di un attivista politico, si ottenevano nel primo caso 180 milioni di risultati con in cima le quotazioni delle azioni Bp, mentre il secondo diede 139 milioni di risultati, con le notizie del disastro ecologico in prima fila.Il ghetto dorato che ci siamo costruiti intorno, poi, viene ulteriormente rafforzato dai social network, Facebook in testa, che hanno accelerato la trasformazione dei nostri comportamenti in merce, espropriandoci della nostra intimità per rivenderla al miglior offerente, offerente che resta invisibile, sconosciuto e quindi ancora più insidioso.Come difenderci dalla filter bubble? Innanzitutto riconoscendola come tale, accorgendoci della sua esistenza, poi chiedendo maggior trasparenza agli operatori, magari facendo pressioni perché il problema sia riconosciuto e affrontato nelle sedi adatte. Nel frattempo, può essere utile riflettere su un proverbio che circola in Rete: «Se non paghi qualcosa, non sei il cliente: sei il prodotto».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: