martedì 15 marzo 2011
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L’onda contro il porto, lo tsunami, l’onda lunga e anomala, alta quanto un grattacielo, l’onda che s’impenna, spinge avanti la sua cresta schiumosa come un tentacolo di polipo o come l’artiglio di un drago, l’avevamo conosciuta devastante come una bomba atomica qualche anno fa in Indonesia, e ora si è rifatta viva, in Giappone, col suo potenziale di distruzione e di morte che rade al suolo le città. È l’immagine del mondo primordiale, dello scontro di forze che anima e contorce il serpente d’acqua della mitologia asiatica. Così, anche se l’abbiamo ammirata forse come poetico sogno d’artista, ce la rappresenta Hokusai, il grande pittore giapponese vissuto ottantanove anni a cavallo del XVIII e del XIX secolo nella Grande onda.Edmond de Goncourt lo definiva un visionario sconvolto dai propri sogni, anche se nessun artista di quel paese fu, più di Hokusai, ancorato alla terra. La Grande onda fa parte delle Trentasei vedute del Monte Fuji. Domina la scena l’impennata altissima del mare e si vedono appena le due barche di pescatori in balìa del muro d’acqua che avanza. In realtà, dire che si trovano in balìa dell’onda è sbagliato: qui, allo yin della tigre, l’energia primordiale della natura, corrisponde lo yang del principio umano che reagisce alla smisurata forza mantenendo la calma davanti al pericolo.A parte la bellezza estetica, quest’opera cela un sentimento profondissimo del popolo giapponese, la saggezza 'rassegnata' alle leggi della vita, che in questi giorni ha sorpreso l’opinione pubblica internazionale. Si è detto dell’autocontrollo di uomini e donne, anziani e bambini, addestrati a reagire 'tecnicamente' alle fatalità sismiche senza cedere al panico; del senso di unione collettiva nel patire l’offesa della natura matrigna; della gentilezza che, nel day after, resisteva in tante persone ferite dalla perdita dei propri cari e dal ritrovarsi improvvisamente senza nulla.Lo stile, diceva Gourmont, è come il colore degli occhi o il timbro della voce, è quello che è, e si rivela in ogni cosa ma, soprattutto, nelle grandi occasioni (belle o brutte che siano). Hokusai fu un distillato purissimo di questo stile, che oggi rivive nel suo popolo colpito dalla catastrofe naturale. Uomo umile, cresciuto come artigiano del disegno, uomo di strada, che non vuol dire rozzo, anzi, era «raffinato pur nella semplicità» e consapevole della propria arte se è vero che sulla porta dello studio aveva scritto: «Hachiemon non dipinge ventagli e non disegna modelli per allievi». Hachiemon era uno dei nomi che aveva adottato per caratterizzare le fasi della sua creatività; un altro era Raishin, che significa 'tuono e tremore' e pare l’abbia usato dopo che un fulmine caduto non molto distante da lui lo aveva scaraventato in una risaia.Ecco, Hokusai prende lezione dalla vita, anche quando dipinge o incide scene quotidiane. «Per indifferenza, o forse per vocazione, egli restò povero», dice Focillon. Calzerebbe bene a Hokusai la definizione che Winckelmann dà della bellezza neoclassica: «Nobile semplicità e calma grandezza». Ma in Hokusai di classico c’è soltanto l’apparenza, una semplificazione del segno che condensa i valori simbolici di una società altamente ritualizzata.Forse, per capire quanta tensione ci sia nei suoi disegni, bisogna ricordare un episodio celebre: un giorno Hokusai decise di dipingere su un grande rotolo di carta, la cui superficie era di duecento metri quadrati; intinse una scopa in un bidone d’inchiostro e iniziò a correre da una parte all’altra del foglio, mentre una folla di curiosi lo guardava meravigliata. Quando ebbe finito, alcuni presero delle scale e alzarono quel lenzuolo di carta: agli occhi dei presenti apparve l’immagine di Dharma, l’essere fondatore, la legge cosmica. Fu la prima di una serie di performance che Hokusai ripetè in varie parti del Giappone e sembra anticipare tecniche moderne di artisti come Pollock, ma si tratta di un gesto che imita la nascita del mondo, nel quale l’artista è lo strumento che permette alla legge del cosmo di manifestarsi.Il sentimento religioso di Hokusai è un rapporto con la natura che si esprime al massimo di tensione proprio nella Grande onda: l’equilibrio precario, instabile, quello del 'mondo fluttuante' che tanto spazio ha nella pittura giapponese (ukiyo-e), incarna il contrappasso fra i due principi cosmici: il femminile e il maschile, la Tigre e il Drago, l’acqua e il fuoco. Si dice spesso che la pittura impressionista francese deve molto alla scoperta delle stampe giapponesi. È un’affermaziome approssimativa. Mirbeau sosteneva che Monet avesse scoperto Hokusai in Olanda, quando vide che il droghiere per incartare i suoi prodotti usava stampe giapponesi (e, secondo l’aneddoto, il negoziante fu felice di regalargliele perché non era carta abbastanza robusta). La realtà è che l’arte giapponese insegnò a quella occidentale la poetica del vuoto e un sentimento tragico che si manifesta senza uso di ombre.Ancora Focillon scrive che i trionfi dell’arte occidentale «sono bagnati di sudore», perché essa «per darci il sentimento della vita e della libertà dispone di forme incatenate alla propria pesantezza». Il Giappone, invece, «si limita: riduce lo spazio, scaccia la notte, semplifica e affina il suo sapere». Potrebbe valere anche per la straordinaria capacità tecnologica che questo Paese ha saputo sviluppare diventando una potenza mondiale, ma ancora una volta lo tsunami mette alla prova questo popolo paziente. L’anima giapponese combatte le forze oscure con l’umiltà di Sisifo, forse perché il vero senso della vita si guadagna non quando si è raggiunta la cima della montagna, ma quando il masso, rotolando a valle, ci costringe e ricominciare tutto daccapo.
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