giovedì 16 novembre 2017
Il testo che pubblichiamo è parte dell'articolo che rav Giuseppe Laras, morto ieri, ha scritto nel numero di Luoghi dell'Infinito in uscita il prossimo 5 dicembre e dedicato al tema "Attesa e grazia"
Il rabbino Giuseppe Laras in visita nella sinagoga di Barletta nel 2017

Il rabbino Giuseppe Laras in visita nella sinagoga di Barletta nel 2017

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I miei ricordi di bambino sono stati traumatizzati dalla guerra e dalla persecuzione. Ricordo di aver vissuto, nascosto e braccato, in luoghi estremamente belli, in cui i colossi montani si stagliavano in tersi cieli color indaco oppure tra plumbee nubi. Si trattava delle magnifiche vette della Val Grande di Lanzo, con i loro picchi e declivi, boschi e radure, fieri rapaci e simpatici anima-letti. Ricordo che avevo imparato a raccogliere i funghi, distinguendoli correttamente, inoltrandomi là dove gli alberi erano più folti. Ricordo anche che mi piaceva quella vita rustica ed essenziale.

Purtroppo, per mia madre e me era sì un luogo di ricovero, ma era al contempo un posto estremamente pericoloso, irto di difficoltà. Richiedeva mille attenzioni, mille sotterfugi e nascondimenti. Eravamo ostaggio di infinite paure, che spesso si concretizzavano. I nazisti rastrellavano anche lassù ebrei e partigiani, di intesa con i loro molti complici italiani, non meno spietati. Lì iniziai ad apprendere che viltà e spietatezza sono spesso compagne e complici.

Ho dei ricordi di quel che fu la mia famiglia e il nostro focolare domestico: l’essere amato da chi ti ha generato, la presenza di mia mamma, l’amore tra i miei genitori, la mamma di mia mamma che condivideva da vicino la nostra vita familiare. Ricordo la bellezza di tutto questo, una bellezza intima e discreta, tenera ed essenziale, romantica ma non sdolcinata, sincera e mai sfacciata. Ricordo quando le due SS italiane bussarono seccamente alla porta, dopo che la nostra devota portinaia, tante volte beneficata dalla mia famiglia, aveva venduto mia madre e mia nonna per cinquemila lire ciascuna. Ricordo la strada fatta a piedi, a sera inoltrata, per arrivare alla sede torinese della Gestapo. Ricordo l’ultimo rapido sguardo con mia mamma, che mai più rividi, e ricordo la corsa disperata, sconvolto, per trovare un luogo sicuro per nascondermi. Ricordo che rimasi muto per oltre sei mesi. Era bella mia madre, era la mia mamma. Era bella la nostra famiglia, con l’enormità di vita che è dolcemente ascosa e sintetizzata dalla parola “famiglia”. Era bella la fanciullezza. Il due ottobre del 1944, a nove anni, persi tutto questo. Fu una perdita irreversibile. Quando sono molto agitato e sotto pressione mi capita ancora, mentre dormo, di sentire bussare forte alla porta, svegliandomi di soprassalto. Anni dopo, assieme a mia moglie, iniziammo l’edificazione della nostra famiglia. Pur con gli spettri del passato sempre presenti, ho goduto della bellezza intensa della vita familiare, con alti e bassi, con angosce e speranze, con entusiasmi e amarezze, come chiunque.

L’età sta fiaccando il mio corpo e l’essere stato per alcune decadi un fumatore indefesso ha dato inoltre abbrivio a una serie di patologie respiratorie che rendono evidenti fragilità e rischi. Il corpo umano è meraviglioso: un prodigio di bellezza mirabile, che ti permette di accarezzare chi ami; di dare luce e spessore alle persone che incontri e che trascorreranno con te parti più o meno estese della tua e della loro vita; di assaporare l’aria fresca della pioggia che ha momentaneamente sconfitto la canicola estiva; di annusare i balsami delle piante e i manicaretti preparati da mani amorevoli. Il corpo umano ci attrae, catalizza la nostra attenzione e rende vera e concreta la nostra esistenza. Certuni cosiddetti “religiosi” hanno diffuso l’odiosa bestemmia per cui si ravvisa erroneamente nel corpo una prigione per l’anima e nella materialità un inganno. Bisogna diffidare dai pietisti che minimizzano – o, peggio ancora, sviliscono – questo dono di Dio, facendo del piacere fisico una tentazione e non una fondamentale espressione di umanità e potenzialità spirituali, del vigore del corpo un’insolenza e della malattia una benedizione. Mi trovo in una fase della vita, quella della senescenza ormai lambita e avviata, in cui si esperisce chiaramente, tangibilmente, che anche questa bellezza è destinata a esaurirsi.

Esiste anche una bellezza interiore e nascosta, che riguarda silenziosamente noi stessi, tuttavia continuamente esposta sia alle parole sia al disordinato vociare del mondo esterno. E tutti abbiamo contezza di quanto ciascuno di noi abbia contribuito a inquinare la propria bellezza riposta e intima, peccando contro sé. Nel migliore dei casi, quando riusciamo a emendarci, a restaurare ciò che è andato infranto e a ricuperare le posizioni perdute, resta tuttavia la memoria, non certo entusiasmante, di quanto comunque occorso. E non è nemmeno detto che, drammaticamente, questo ricordo assurga a monito e che, d’altro canto, il monito poi funzioni al suo scopo dissuasivo. Ancora una volta una bellezza, che sappiamo riconoscere con certezza come tale, che va facilmente dissipandosi.

La Bibbia, nel suo originale ebraico, ha un’unica parola per “buono” e “bello”, sintetica e orientativa: “ tov”. Il peccato di Adamo, secondo molti Maestri di Israele, fu proprio quello di aver scelto di comprendere e giudicare secondo criteri meramente apparenti ed estetizzanti e non secondo criteri 'etici', ossia esistenziali e concreti.

Ma che ne è della speranza in relazione alla fragilità e all’erosione della bellezza? Vi sono speranze personali e collettive, umane e messianiche, universali e particolari: le une sono avvinte alle altre, ma non confuse. Nulla può definitivamente fermare la morte in questo mondo, ma il progresso medico, tecnologico e scientifico ha saputo spesso arginarne con efficacia le manifestazioni più crude e grossolane. La bellezza può essere violentata e dissolta dalla morte, ma la medicina ha un certo margine d’azione per medicare, rinfrancare e risanare. La tecnologia è una speranza perché risponde a un’esigenza e a un compito posti dal Creatore nell’intimo dell’essere umano. La conoscenza è certamente responsabilità, ma l’ignoranza è sempre lontananza ulteriore da Dio e, più spesso di quanto si voglia ammettere o indulgere, una colpa molto grave.

Nessuno in questo mondo ha il potere di ridare vita a mia madre e di restituirmela. Noi con ferma fede crediamo e speriamo, come da lettera biblica, che il Signore Dio «faccia morire e faccia vivere», ovvero che faccia risorgere i morti. Noi abbiamo però il potere e il comandamento di procreare, il che significa non consegnare completamente noi stessi alla morte, arrendendoci, lasciando che la cultura della morte, così triste eppur apparentemente così ragionevole e suadente, abbia l’ultima parola. La mia speranza sono i miei figli, i loro figli e i figli dei loro figli. La mia speranza sono i miei allievi, gli allievi dei miei allievi, chi insegna e chi apprende la Torah.

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