giovedì 19 marzo 2015
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E il Cinema Due? Era la domanda con cui, esattamente dieci anni fa, si chiudeva L’occhio del Novecento , il saggio nel quale Francesco Casetti ricapitolava l’eredità più che centenaria del cinema, la sua capacità di accompagnare e plasmare la nostra modernità. Epoca esaltante, ma ormai al tramonto, avvertiva lo studioso. Le rivoluzioni del digitale, la pervasività degli schermi, le nuove modalità di visione stavano già componendo un assetto diverso, quello del “Cinema Due”, appunto, che nel frattempo ha subìto mutazioni impreviste e altre ancora è destinato ad affrontarne. Di tutto questo Casetti si occupa nel suo nuovo libro, La Galassia Lumière (Bompiani, pagine 460, euro 20), che appare contemporaneamente in Italia e negli Stati Uniti. «Al cinema sta succedendo quello che in passato è successo alla pittura», spiega l’autore al telefono dal suo ufficio della Yale University, dove da alcuni anni tiene la cattedra di Cinema e Media.Si riferisce al trattamento delle immagini?«Direi piuttosto alle tecnologie. Dal punto di vista storico, un certo modo di intendere e praticare la pittura si è evoluto in diretta relazione con la scoperta di determinati pigmenti. Quando questi sono caduti in disuso, però, la pittura non è morta. Ha resistito, si è trasformata, ha assimilato nuove pratiche e nuovi materiali. Il processo che riguarda attualmente il cinema è in buona misura analogo, pur nella sua unicità».Quale?«Il cinema è la contemplazione del mondo attraverso immagini proiettate su uno schermo: un’esperienza di visione finora strettamente connessa a una macchina, che è poi il proiettore dei Lumière. Il problema è che questa macchina, così come l’abbiamo conosciuta, ha ormai perduto la sua centralità esclusiva. Si sta verificando uno spostamento di tecnologie e comportamenti il cui esito è ancora sconosciuto».Lei quale previsione farebbe?«Personalmente sono dell’idea che tutto quello che sta accadendo vada nella direzione di un arricchimento. Il cinema è qualcosa che è nato e che non riesce più a morire, un’esperienza di cui abbiamo ancora bisogno, una macchina che nella sua assoluta modernità risponde a un’istanza fuori dal tempo. Questo è il sogno che, dalla caverna di Platone in poi, l’umanità ha continuato a sognare. Siamo in una dimensione storica e nello stesso tempo antropologica, originaria».Parla del cinema in termini quasi religiosi.«Più di un secolo fa, in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro, l’italiano Ricciotto Canudo e lo statunitense Vachel Lindsay individuarono nel cinema una dimensione religiosa, sia pure priva di trascendenza: la celebrazione, il rito, la funzione profetica del regista rispetto alla massa degli spettatori. Sono convinto che questi elementi appartengano in profondità al cinema, anche al di là della lezione apertamente spirituale di maestri come Carl Theodor Dreyer, Ingmar Bergman e Robert Bresson. In senso più generale, il cinema sconfina nel religioso ogni volta che dichiara la pretesa di ricostruire la vita in tutta la sua vastità e quando, mettendo in atto questa ricostruzione, torna a incontrarsi con i miti universali dell’umanità. Pensi a Stanley Kubrick, pensi a Sergio Leone, straordinari registi talmente ossessionati dalla grandiosità e dall’esattezza da sconfinare fatalmente nell’epica o addirittura nella cosmogonia».Ma questo non vale anche per la realtà virtuale?«No, perché l’immagine del cinema si proietta sempre su uno schermo, e quello schermo conserva un contorno. Nel momento stesso in cui si spinge oltre il bordo, il cinema proclama l’esistenza del bordo stesso. Introduce un limite attraverso la ricerca dell’illimitato o, meglio ancora, non si accontenta di proclamare il principio di trascendenza, ma lo scopre come valore immanente. Incarnato, oserei dire».Sì, ma il cinema di oggi è ancora cinema?«Il disorientamento davanti a un’evoluzione tanto tumultuosa è legittimo, ma tendiamo a dimenticare un paio di dati decisivi, non solo in prospettiva storica. Ogni volta che ci sentiamo girare la testa davanti a un nuovo dispositivo tecnologico, dobbiamo ricordare che, al suo apparire, il cinema si è imposto come qualcosa di assolutamente sconvolgente. Non erano semplicemente immagini, ma immagini in movimento, era la vita stessa che si manifestava sullo schermo. Alla fine del XIX secolo, si rende conto? Nel secolo delle macchine, nel secolo in cui il mito Frankenstein ipotizza la creazione della vita per mezzo della tecnica».E l’altro aspetto dimenticato?«Consiste nel fatto che la nascita del cinema è posta sotto il segno del caos. A chi è destinata l’invenzione, tanto per cominciare? Thomas Edison costruisce apparecchi per un singolo spettatore, mentre sono i Lumière, di nuovo, a investire su un pubblico più ampio. Ma di che pubblico si tratta? Le famiglie, alle quali erano destinati i primi proiettori, o una platea simile a quella teatrale? In questo caso, poi, il cinema è lo spettacolo in sé oppure un segmento da affiancare a tanti altri? Sono interrogativi simili a quelli che ritroviamo nei nostri anni, nei quali il cinema si allontana drasticamente dal modello che molti di noi hanno sperimentato fin dall’infanzia, eppure resta sempre riconoscibile. E necessario, ripeto».Ma questa evoluzione non rischia di turbare la nostra percezione della realtà?«La paura del cinema è antica quanto il cinema stesso. La si ritrova in molta letteratura critica delle origini, in particolare negli scritti di Wilhelm Stapel, un intellettuale tedesco tristemente noto in seguito per il suo antisemitismo. È lui, all’altezza del 1919, ad agitare lo spettro dell’homo cinematicus, sorta di spregevole mutante prodotto dalla tecnica. A distanza di tempo possiamo dire che certo, il cinema ci ha cambiati, ma non è stato il solo agente di cambiamento. Un ruolo ancor più determinante lo hanno avuto, per esempio, le guerre che hanno segnato il Novecento. Il paesaggio della storia è stato sconvolto, insomma, e il cinema si è rivelato lo strumento adatto per raccontare e restituire significato a tanta devastazione. Così è stato in passato, così può ancora essere oggi e nel futuro».
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