giovedì 27 maggio 2010
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A trent’anni del suo assassinìo per mano dei terroristi rossi, la figura di Walter Tobagi, cronista e storico e presidente del sindacato lombardo dei giornalisti, non è completamente impallidita dal trascorrere del tempo. Anche perché restano, e ancora ci parlano, le lucide analisi dei suoi libri, dei suoi saggi e dei suoi articoli. E, più si deposita la polvere delle polemiche politico-giudiziarie che hanno dolorosamente accompagnato nel corso dei decenni la vicenda del delitto, più emerge cristallina la dimensione religiosa di Tobagi, che ne costituiva la reale essenza e il solido fondamento sul quale naturaliter si sviluppò il suo impegno professionale e civile. Eppure, in una produzione intellettuale straordinariamente intensa, Tobagi scrisse molto poco sul mondo cattolico e sulla Chiesa, allora inquieta e attraversata dai fermenti post-conciliari. Neppure nei suoi anni passati ad Avvenire, che ricordava come i più sereni e forse più fecondi: allora c’erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni ’45-’50 e il suo primo libro, uscito nel 1970. Ovvero la Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, dove, da «storico del presente» coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto. Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato. E di costituire così la tragica rivincita dei «nonni», rivoluzionari e massimalisti, contro i «padri», democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata. E in quel contesto la fede cristiana, così considerata estranea al discorso pubblico, appariva solo un vezzo per chi indagava culturalmente nella tragedia della sinistra: eppure per Tobagi la condizione di cattolico (non esibita ma neppure nascosta) era fondamentale per discernere comunque e valorizzare i «semi di speranza» in un clima sociale tanto doloroso e rassegnato. D’altronde, da semplice fedele, non mancava di partecipare alla vita della sua parrocchia e insieme a coltivare la conoscenza della Scrittura, nell’ambito di quei cenacoli-pilota che porteranno poi ai diffusi gruppi d’ascolto della Parola di Dio. Ed è a questa che fa riferimento quando si interroga con pochi colleghi (a quel tempo erano 7 i credenti «dichiarati» tra i 300 giornalisti del Corriere) sul significato profondo del ritrovarsi ad essere un «cristiano che fa il giornalista» in quella temperie storica. Era l’estate del ’79, Tobagi era già nel mirino dei terroristi, e pativa la campagna di denigrazione dopo la sua vittoria alle elezioni del sindacato lombardo. Eppure sentiva la necessità di riflettere sul Vangelo: dove Gesù non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, risponde soltanto: «Venite e vedete…». E andare e vedere, magari con l’occhio lungo e l’orecchio attento, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse l’essenza del nostro mestiere? Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un’altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora  la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o interessati. Piuttosto, coltivando la dote dello «stupore», il metodo restava quello di «lasciarsi riempire» dalla realtà complessa che si veniva ad incontrare, dandole ordine, forma, gerarchia e significato. In modo da fornire per questa via al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell’informazione, così che ciascuno potesse formarsi in libertà e completezza il proprio autonomo convincimento. E in questo percorso di rigore professionale, il giornalista andava tutelato nella sua autentica indipendenza. Di qui l’impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di speranza in un cambiamento positivo, graduale e partecipato.  Era riformismo? Certamente sì, ma intessuto dalla responsabilità di lavorare ovunque per costruire (anche per i propri figli) una società meno lacerata dalla violenza e più aperta al futuro. E insieme alla speranza davvero cristiana c’era, pur nell’affanno di una vita così impegnata, un abbandonarsi fiducioso alla Provvidenza. Negli ultimi mesi, a chi lo accompagnava spesso a casa dal Corriere (come chi scrive) confessava, oltre alle umanissime paure, la percezione lucida dei rischi che correva, accanto alla consapevole certezza di non potersi e non volersi sottrarre. «Non mi perdoneranno – ripeteva – di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato, che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e di trovare il libero consenso di molti colleghi… Ma non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio…».
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