mercoledì 18 febbraio 2009
Fu l’arcivescovo Lercaro negli anni Cinquanta a promuovere a Ravenna la rinascita della sfilata delle maschere, per contrastare le organizzazioni «rosse» Ogni parrocchia doveva preparare un carro, usando anche esperti pagati; il migliore avrebbe poi ricevuto un premio in denaro
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A Ravenna prima del 1952 il Carnevale era solamente un ricordo lontano nella memoria di qualche nonno. Gli ultimi coriandoli e stelle filanti, infatti, avevano svolazzato nel festoso clima del carnevale alla fine dell’Ottocento, quando le feste erano organizzate, con intenti filantropici, dalla Società della Mariola. Poi un lungo silenzio. Ma all’inizio degli anni Cinquanta del secolo corso qualcosa si muove e l’arcivescovo di Ravenna monsignor Giacomo Lercaro decide di dar fuoco alle polveri e di preparare un Carnevale degno della migliore tradizione. Le feste del Carnevale, con tanto di sfilata di carri per le vie della città, non nascono però come un fungo dopo la pioggia, ma sono suggerite da un evento particolare. Il clima degli anni Cinquanta è caratterizzato a forti polemiche fra cattolici e comunisti e questi ultimi sono considerati un vero pericolo da combattere e da «arginare». Non a caso il settimanale cattolico che inizia le pubblicazioni nell’immediato dopoguerra si chiama proprio «L’Argine». Nel gennaio del 1952 la città di Ravenna ospita il primo raduno dell’Api ( Associazione Pionieri Italiani) che richiama nel salone della «Camera del lavoro» alcune centinaia di ragazzi ai quali vengono proposti slogan in evidente contrasto con la Chiesa. I ragazzi erano chiamato i «Pionieri» perché leggevano un giornale che aveva lo stesso titolo, Il Pioniere, e inoltre agli associati veniva rilasciata una tessera che assomigliava molto a quelle distribuite delle associazioni cattoliche. I ragazzi della Azione Cattolica leggevano Il Vittorioso, uscito nel 1937 e che ebbe fra i suoi direttori Luigi Gedda e Carlo Carretto. Il Pioniere, invece, iniziò le pubblicazioni all’inizio degli anni Cinquanta. L’Api, si legge in una cronaca, «non vuole creare ragazzi che siano disposti a chinare la testa di fronte al potente bensì uomini che sappiano lottare contro di esso per portare l’uguaglianza e la fratellanza». I messaggi sono molto politicizzati e forse un po’ troppo forti per ragazzi di giovane età: «Il Pioniere, ragazzo scelto, deve sentire la lotta di classe, deve fin dai primi anni della sua fanciullezza crearsi la mentalità socialista, deve odiare il ricco… al fine di eliminarlo e instaurare la giustizia sociale». Ma gli organizzatori hanno le idee ben chiare e lanciano una ben precisa sfida a quelli dell’Azione cattolica formulando accuse gratuite: «Oggi noi lanciamo una sfida all’Azione Cattolica che è una setta di ragazzi depravati. Nei ricreatori dei preti si studia di attirare col pallone e il calcio-balilla le simpatie dei ragazzi, per impartire loro una educazione legata a troppi loschi interessi privati che riempie il loro animo di odio e di intolleranza. Maestre dell’Ac hanno strappato copertine di quaderni raffiguranti gesta di partigiani… Le scuole serali sono una propaganda di calunnie contro il Comunismo… A Faenza, ove vi è un sindaco Dc, le scuole sono indecenti e i fanciulli che le frequentano si trovano nel pericolo di contrarre la tubercolosi… Ma l’Azione Cattolica presto avrà finito la sua marcia perché sta ora finalmente subentrando anche in Italia la sensibilità della nuova educazione, e questa sensibilità è stata suscitata solo dall’Api». Il cronista informa anche che un professore aveva proposto di cambiar nome perfino ai tradizionali giochi dei ragazzi. «Guardie e ladri», ad esempio, si sarebbe trasformato in «Capitalisti e proletari», mentre il «Gioco dell’oca» sarebbe diventato «La marcia del proletariato». Al raduno dei Pionieri vengono offerti ai ragazzi alcuni spettacoli fra i quali il cronista ricorda una poesia contro il governo, una caricatura della scuola nella quale la maestra picchia col righello le dita dei piccoli contadini e regala doni ai figli dei ricchi e un’altra dove il figlio di un contadino non sa leggere perché il prete avrebbe convinto la madre a non farlo studiare. Questo, dunque, il clima che si respira in quegli anni e proprio in seguito alle accuse lanciate dai Pionieri l’arcivescovo monsignor Lercaro decide di passare al contrattacco e convoca nel suo studio la «Commissione diocesana per la fanciullezza» della quale fanno parte l’assistente don Arrigo Barboni, Maria Teresa Venturi, Maria Orselli, Elena Frattini Guberti e Dora Marani Dragoni. Alla riunione partecipa anche Gusella Fabbri in rappresentanza delle signore della città. Il verbale della seduta è molto chiaro: «L’intento di S.E. era di attirare il maggior numero possibile di ragazzi alle Parrocchie. Lo spunto di questa iniziativa fu dato all’Arcivescovo dal Congresso del Pc per tutti i fanciulli iscritti all’Api (tenutosi a Ravenna nel mese di gennaio). In tale congresso vennero accusati i Sacerdoti di accattivarsi le simpatie dei ragazzi tramite il divertimento. L’Arcivescovo, venuto a conoscenza di ciò, volle che tale accusa fosse vera e ideò il Corso mascherato delle Parrocchie che fu lanciato come 'Il Carnevale dei Ragazzi'». Nelle successive riunioni vennero stabilite le regole per la partecipazione, così riassunte nel verbale: «1) Ogni Parrocchia doveva impegnarsi a preparare un carro allegorico, affrontando qualunque ostacolo e difficoltà finanziarie, 2) Cercare aiuti di persone competenti e capaci anche a pagamento, 3) Il lavoro doveva essere eseguito dai ragazzi iscritti e non iscritti all’A.C. collaborando coi più grandi, 4) Far pervenire in busta chiusa, nel limite di una settimana, il soggetto scelto per la partecipazione al corso mascherato, 5) Per il progetto e per la lavorazione era stabilito di conservare il massimo segreto, 6) Per i carri migliori si fissarono tre premi. Primo premio £. 100.000, secondo £. 50.000, terzo £. 5.000». In una successiva riunione l’arcivescovo illustrò il suo programma «e la necessità e la bellezza dello scopo della festa che non aveva solo carattere folcloristico, ma soprattutto educativo e apostolico». Con la sfilata dei carri, dunque, l’arcivescovo intendeva offrire alla sua diocesi una importante occasione di svago e di divertimento trasformando il lieto evento del carnevale in un importante momento di aggregazione che avrebbe riunito grandi e piccini.
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