Da sempre le tecnologie agiscono su
Homo sapiens trasformandolo in
Homo technologicus: l’uomo costruisce gli strumenti tecnici, e questi a loro volta retroagiscono su di lui, circondandolo, invadendolo e trasformandolo in un
simbionte ciborganico in cui la parte biologica e la parte artificiale convivono più o meno felicemente. Oggi questa trasformazione in simbionte biotecnologico è molto visibile: l’uomo è una creatura in continuo divenire, tanto che «la tecnologia ha distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo, rendendo così l’umano capace di essere modificato». La citazione è tratta da un dossier sul postumano che compare nell’ultimo numero della rivista “Jesus”: anche la fede è coinvolta in questo vasto movimento. La possibilità che gli umani prendano in mano le redini della propria evoluzione è vista da alcuni con entusiasmo e da altri con viva apprensione: la tecnologia non è affatto neutra, anzi suscita emozioni profonde. Essa ha forti connotati magici e risuscita i miti antichi dell’onniscienza, dell’onnipotenza e perfino dell’immortalità. La trasformazione dell’uomo indotta dalla tecnologia ha assunto carattere volontario, programmatico e consapevole, poiché è diretta a due ordini di finalità: terapeutiche, per recuperare in tutto o in parte facoltà compromesse o perdute o per rimediare a patologie più o meno gravi; e migliorative, per potenziare facoltà naturali o per generare capacità inedite. Questa vasta rivoluzione teorica e pratica coinvolge e stravolge molti dei concetti che la tradizione ci ha consegnato e molti aspetti della nostra società e della nostra cultura. Sul piano teorico sfumano molte distinzioni consolidate, in primo luogo quella tra naturale e artificiale. Viene messa in discussione la cosiddetta "sacralità della natura": ormai l’uomo, armato delle sue tecnologie, cessa di
riprodursi secondo i meccanismi della lotteria cromosomica e comincia a
prodursi in base alle specifiche progettuali che più gli piacciono. La definizione di
identità umana diviene problematica.Si apre qui il problema se esista nell’uomo qualche caratteristica essenziale, o tratto assoluto, "indisponibile", cioè non assoggettabile a manipolazione pena la disumanizzazione. Se questo tratto indisponibile esistesse, il rapporto tra naturale e artificiale corrisponderebbe al rapporto tra umano e non umano. Se all’opposto si ammettessero senza riserve nella categoria dell’umano i prodotti delle manipolazioni tecniche, equiparandoli agli esiti dell’evoluzione naturale, si aprirebbe la strada all’avvento del postumano
illimitato: ciò segnerebbe la totale confusione tra l’uomo e il non uomo e si innescherebbe un’evoluzione in cui natura e cultura (intesa come tecnologia) sarebbero indistinguibili. La tecnologia non conosce limiti etici o religiosi, che considera come semplici ostacoli da superare: il limite, come sottolinea il francescano Paolo Benanti nel dossier di “Jesus”, si identifica con il desiderio individuale di potenziamento: «Per il postumano è etico tutto ciò che l’uomo desidera e non è etico ciò che ne limita il desiderio». E aggiunge: «Nella visione in cui tutto comincia dall’io e finisce con l’io, non c’è più bisogno di Dio. Però quando la ricerca della salvezza tramite la tecnologia fallirà, allora ci sarà ancora spazio per la ricerca della vera salvezza».Ma si deve accettare come inevitabile questa deriva? Oppure si deve considerare la specie umana nota fin qui come una sorta di patrimonio inalienabile (e patrimonio di chi? dell’umanità stessa?)? E in nome di che cosa dovremmo optare per l’una o per l’altra scelta? Se l’uomo, com’è stato affermato, è un essere
naturalmente artificiale, come si può pensare di snaturarlo arrestando il suo sviluppo verso il post-umano, che, in questa visione, sarebbe un esito, appunto, naturale? Infatti, si può argomentare, se l’uomo fa parte della natura, anche tutti i suoi prodotti ne fanno parte a buon diritto, anche quando dovessero comprendere forme nuove di umanità. In questo senso l’uomo sarebbe il mezzo di cui la natura si servirebbe per accelerare e arricchire l’evoluzione: la natura delegherebbe all’uomo l’invenzione e la pratica ulteriori dell’evoluzione, abdicando a una funzione ormai stanca o esaurita. All’opposto, se si ritiene che l’umanità (come si è sviluppata fin qui) sia un valore, il passaggio al postumano segnerebbe la scomparsa o almeno l’atrofizzazione dell’umanità, della biologia umana e della cultura umana. A quest’ultima visione si può controbattere ponendo la questione del momento di passaggio o del punto di non ritorno: quando, esattamente, l’umano cede o cederebbe il passo al post-umano? L’uomo non è forse sempre stato post-umano, nel senso di essere sempre stato ibridato con l’altro – piante, animali, cibo, farmaci, droghe e, oggi, le macchine – e modificato, aumentato e migliorato dalle pratiche artificiali? Insomma, il passaggio, al post-umano non è forse sempre esistito nella nostra storia, graduale e progressivo anche se sempre più veloce, piuttosto che brusco? Siamo sicuri che esista un momento in cui (o una tecnologia per cui) si può o si potrebbe dire: qui cessa l’umano e comincia il post-umano? Ma al di là di tutte le considerazioni razionali, si deve riconoscere, con Benanti, che «cancellare alcune caratteristiche della vita non è un potenziamento ma è una negazione dell’umanità. Il limite è tutto ciò che separa una vita determinata, come quella di una macchina, da una vita autenticamente umana, che include anche il fallimento. Se la tecnologia trasforma la vita in un meccanismo, elimina l’umanità». E se l’uomo è sempre stato postumano, si deve convenire che oggi si rende conto di questa metamorfosi: tale consapevolezza pone in tutta la sua drammaticità il problema etico e ci carica della grandissima responsabilità di guidare il mutamento per sentieri genuinamente umani.