martedì 15 giugno 2021
Gli scatti sullo smartphone sono l’inizio di un viaggio tra i milioni di crepuscoli in Rete e le domande che stanno dietro le immagini: la riflessione della scrittrice per l'Annual Report Pirelli
Tramonto sul Ponte Vecchio a Firenze

Tramonto sul Ponte Vecchio a Firenze - Icp

COMMENTA E CONDIVIDI

Il progetto – o meglio la suggestione, come racconta Maurizio Abet, senior vice president Communication e Brand Image di Pirelli – risale al 2010, «cercando delle immagini per illustrare un piano industriale». Da lì un’evoluzione costante che ha portato Pirelli a collaborare ogni anno con artisti scrittori per raccontare un tema portante dell’evoluzione socio-culturale ad ogni bilancio del Gruppo. The Human Dimension è il titolo dell’Annual Report 2020, in cui tre grandi autori come Luciano Floridi, Michele Masneri e Jia Tolentino (della quale qui anticipiamo un estratto) riflettono sugli impatti che le trasformazioni tecnologiche e sociali, accelerate dalla pandemia, hanno avuto sulla dimensione umana. «Mutazioni profonde che hanno portato a una rinnovata consapevolezza della centralità dell’uomo e delle sue necessità anche all’interno dell’ecosistema delle imprese – spiega Abet –, Cambiamenti che gli artisti sono in grado di intercettare spesso per primi e consentono di leggere anche per un’azienda la contemporaneità con le sue aperture e le sue ferite».

Tramonto sul Ponte Vecchio a Firenze / Icp Due anni fa, mentre stavo andando in metropolitana da Brooklyn a Manhattan, ho aperto il mio calendar e ho realizzato di non avere un giorno libero da impegni di lavoro per i successivi tre mesi. Silenziosamente ho iniziato ad andare in panico, chiedendomi come fosse possibile che la mia vita fosse diventata così piena di cose da fare ma senza davvero sapere perché le facessi, come fossi riuscita a usare così male la mia libertà, come diavolo fosse successo che avessi cercato così duramente di sfruttare me stessa come essere umano al punto tale da non avere più tempo per essere umana. Quando sono risalita dalla metropolitana, il sole stava tramontando, elettrico e tragico, un colore melograno al neon dietro i grattacieli. Ho deciso che come primo passo di un processo di recupero avrei iniziato a raccogliere sul mio telefono una collezione di tramonti. [...] Quasi immediatamente, la raccolta di tramonti è diventata un esercizio di patetico inganno. Una notte notai che il cielo sembrava vigoroso e malinconico, in un’altra giocoso e sontuoso, in un’altra ancora gentile e rassegnato. Dovevo ricordare a me stessa che la terra era impermeabile a qualunque delle emozioni semisepolte che stavo proiettando su di essa. Queste manifestazioni di radiosità passeggera erano prive di significato o, più propriamente, parlavano di scale e sistemi che rendevano me priva di significato. Niente resiste alla cattura come un tramonto, e niente ci invita così insistentemente alla follia di provarci. Ci sono duecentosettantasei milioni di foto di tramonti su Instagram; ce ne sono quasi cinque milioni che vivono ancora su Flickr; e due milioni e mezzo in licenza su Getty Images. A volte, mentre prendevo appunti su un tramonto, altre persone notavano il cielo e si mettevano accanto a me, e formavamo un piccolo nodo di estranei, a bocca aperta, i telefoni puntati all’orizzonte, come se questa volta, finalmente, potessimo davvero superare il grande cliché. Tendiamo a concepire l’osservazione del tramonto come un’esperienza di beatitudine non mediata – solo noi, e forse qualcuno che amiamo, a guardare le nuvole prendere il rosso ciliegia e a farneticare – anche se sappiamo che quasi inevitabilmente infrangeremo le nostre fantasticherie cercando di registrare quello che vediamo. Ho iniziato a pensare che la registrazione dei tramonti provenisse in parte da un desiderio inconscio di ricordare la piccolezza dei nostri sforzi, il modo in cui si dissolvono così rapidamente, che ciò che vogliamo veramente può essere un’esperienza ma non un possesso. Ho smesso di tenere la raccolta dei tramonti all’inizio della pandemia, nei primi giorni, quando non era appropriato indugiare per lunghi minuti in pubblico. Il futuro era sospeso, il presente era terrificante, c’era poco da fare – almeno per me, coccolata da un lavoro nell’economia del sapere – se non mettere in forno cose da mangiare e controllare le statistiche globali di sofferenza e di morte in continua crescita. Non c’erano più viaggi, niente più fretta per le riunioni, niente corse a perdifiato in ritardo per la cena di compleanno di un’amica, niente conferenze, niente matrimoni, niente viaggi su treni pieni a scrivere e-mail sull’iPhone, niente famiglia in visita, niente chiacchiere con gli sconosciuti, nessun indugio sui prodotti al supermercato. Non c’era altro che la vastità elastica e sfuggente di ogni giorno uguale all’altro. [...] Mi sono ritrovata ad aggrapparmi a diverse unità di tempo e misura, a cose che erano qui prima di noi e che ci sarebbero sopravvissute. Ho cercato di ricordare a me stessa che anche questo anno orribilmente ad alto rischio è stato solo uno delle centinaia di migliaia di anni di esistenza umana, un periodo che a sua volta comprende una piccola frazione della percentuale del tempo dalla nascita dell’universo. Eravamo così minuscoli, non eravamo altro che le cose che potevamo fare l’uno per l’altro. Per la prima volta nella mia vita adulta, ho iniziato a cercare di prestare più attenzione al mondo naturale rispetto al mondo digitale. Dal luogo dove stavo trascorrendo il lockdown non riuscivo a vedere il tramonto, ma ho iniziato a prendere appunti sugli alberi e sul tempo, lasciando che la pratica fosse un altro promemoria per rallentare e guardarmi intorno. Ho scritto di come il crepuscolo sulla neve facesse risplendere tutto come luce nera, dei boccioli che spuntano su un acero in primavera, dei fiori di pioppo che turbinano al vento fuori dalla finestra, del giorno in cui il cielo è diventato grigioverde come l’occhio di un gatto e una nuvola a clessidra si è raccolta in lontananza e ho trascinato dentro il cane prima che iniziasse a ululare. E ho continuato a riorientare il mio rapporto con Internet, che da un lato mi aveva spinto, con i suoi incentivi verso la massima efficienza, redditività e produttività, verso la mia crisi in metropolitana in primo luogo, ma dall’altro conteneva un milione di cieli come promemoria della nostra meravigliosa piccolezza nel mondo. Ho guardato le telecamere della fauna selvatica di bufali nel Dakota del Sud, quelle dell’acquario delle meduse lunari che pulsano. Ho passato ore a guardare WindowSwap, il sito web che mi ha permesso di osservare la costruzione del centro di Dallas dal punto di vista di Maria, il gatto di Ricky che guarda il vialetto di Melbourne, il crepuscolo blu di Yvan a Parigi. Ho iniziato a farmi strada tra i video di tramonti su YouTube. Un video della NASA mostrava tramonti simulati su altri pianeti: giallo per Venere, blu freddo per Marte. C’erano video di tramonti in timelapse, compilation di quelli più di successo, video zoomati dell’inafferrabile lampo verde che può verificarsi quando il sole scivola al di sotto dell’acqua. 'TRAMONTO PERFETTO 60min 4K (Ultra HD)', pubblicato nel 2014, ha quasi tre milioni di visualizzazioni: mostra un’ora ininterrotta di un tramonto abbagliante sull’oceano a Kagoshima, in Giappone, un nucleo giallo incandescente che si scioglie in color mandarino su acqua iridescente. “Sto guardando il tramonto fuori dalla finestra in questo momento, perché i miei genitori hanno avuto un’altra discussione accesa e a voce alta”, scrive un utente di nome Crusty Egg. “Il tramonto mi calma”. Un altro utente di nome Akira scrive: “È così bello e allo stesso tempo mi rende triste. So che lo sei anche tu”. Molti utenti hanno scritto di guardare il tramonto durante la pandemia. Verso la fine del 2020, un utente di nome djl2206 scrive: “Ho sempre voluto andare da qualche parte lontano da tutti gli altri, senza dovermi preoccupare di niente e di nessuno. Potrei finalmente essere me stesso e non portare più il peso del mondo sulle mie spalle. Ho sempre pensato che i tramonti siano la cosa più bella del mondo”. In questi commenti ricorreva una riconoscibile combinazione di dolore e speranza: un senso di quieta perdita e caducità, un desiderio straziante di più amore, più spazio, più agio. Anche nei mondi virtuali in cui le persone sono fuggite durante la pandemia, il tramonto era lì, a rappresentare qualcosa di irriducibilmente umano: nel videogioco Animal Crossing, l’acqua diventa viola durante il tramonto e il cielo si accende di sfumature di pomodoro e prugna. “Ieri mi stavo godendo un tramonto spettacolare dal vivo che me ne ha ricordato un altro in un videogioco”, ha scritto un utente su un forum online, “cioè quando sei al Soldier’s Field in BioShock Infinite, e tutto è una specie di lavanda luminosa. È un tramonto statico, ma che rimane con te, non da ultimo perché quel caldo bagliore si adatta ad alcuni dei fugaci momenti di pace e speranza in quella parte del gioco”. Mentre scrivo queste pagine, la prospettiva di una fine a questa apparentemente eterna èra pandemica sta spuntando attraverso la terra, come un croco primaverile. In futuro ci muoveremo di nuovo; ci sfioreremo l’un l’altro; gli ingranaggi accelereranno tanto velocemente quanto glielo permetteremo. La mia speranza è che ci ricorderemo di mantenere più calma di quanto pensavamo fosse possibile, di concederci questa quiete l’uno l’altro. Torno per qualche giorno sulla bacheca di Reddit dedicata esclusivamente ai tramonti, dove gli utenti pubblicano foto dalla Russia, dalle Filippine o dalla Germania. “Com’è meravigliosa la nostra terra”, scrivono più e più volte. “Mozzafiato”. Pochi giorni fa, un utente ha pubblicato un tramonto infuocato dal New Jersey. “Per caso era l’altra notte?”, ha scritto un altro utente. Aveva lavorato in un supermercato della zona, ma per caso aveva visto lo stesso bagliore.

(traduzione di Simona Siri )

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: