martedì 30 aprile 2019
La corrispondenza dello scrittore dissidente russo con Solženicyn e la vedova di Mandel’štam. Confidenze in presa diretta su un dramma vissuto in prima persona e il modo più efficace di raccontarlo
Prigionieri al lavoro nella costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico tra il 1932 e il 1933

Prigionieri al lavoro nella costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico tra il 1932 e il 1933

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Si impara molto leggendo l’epistolario di Šalamov ora tradotto in Francia ( Correspondance avec Alexandre Soljenitsyne et Nadejda Mandelstam, Verdier, pagine 217, euro 10,60). Si impara circa una rete di relazioni della Russia del dopo gulag, le cui maglie sono intreccio di dialoghi a cavallo tra solidarietà e dissensi, conversazioni segnate a ogni virgola dal dramma storico appena conclusosi, terra bruciata che ancora esala morte. La durissima stagione del totalitarismo è finita, si tratta ora di raccontare, testimoniare. Già, ma farlo come? È il 1962 quando i due grandi scrittori russi anti staliniani Varlam Šalamov e Aleksandr Solženicyn si incontrano per la prima volta a Mosca, nella redazione della celebre rivista letteraria 'Novyi Mir'. Parlano di un racconto di Solženicyn allora appena pubblicato col titolo Una giornata di Ivan Denisovic. Pochi mesi dopo, Šalamov scrive a Solženicyn riprendendo la discussione. Certo, Šalamov gli dice, le sue pagine svolgeranno da quel momento funzione di «rompighiaccio » e di «faro», nonostante «la verità si scontri con una forte resistenza, perché le persone di norma vogliono acqua corrente, quella che non ha bisogno di alcun rompi-ghiaccio». E tuttavia, qualcosa dal punto di vista della forma lo lascia perplesso: il modo in cui la violenza del sistema totalitario di Stalin è stata trasfigurata da Solženicyn non lo convince del tutto. Sono gli stessi anni in cui, sopravvissuto al gulag e alle atroci condizioni di vita all’interno del campo di concentramento staliniano della Kolima, provatissimo nel corpo e nello spirito, Šalamov ha incominciato a scrivere (ne sortiranno gli straordinari Racconti della Kolima). Acuto è il bisogno, per lui, di confrontarsi con interlocutori percepiti come amici: sodali di uno stesso tormento della memoria, compagni del medesimo trauma e della stessa necessità esistenziale di denunciare e narrare per ricominciare a vivere.

Oltre a Solženicyn, pochi altri intellettuali e scrittori (tra questi Osip Mandel’štam prima, la vedova di lui poi) sono i destinatari delle lettere di un Šalamov smarrito, sfibrato tanto quanto determinato a dar forma di racconto al lun- go buio attraversato. In occasione dell’edizione russa dell’epistolario, nel 1990, Solženicyn rifiutò di dare alla curatrice le proprie lettere, eppure la sua voce è come si sentisse. Sembra di avvertirne il tono agrodolce e via via più aspro, dato che i rapporti tra lui e Šalamov peggiorarono venandosi di rivalità letterarie. Se il primo all’inizio incensò i Racconti della Kolima prevedendone il (lontanissimo) successo, Šalamov accusò Solženicyn di «non avere capito niente dei campi». Per Šalamov, del resto, il romanzo è forma morta. «Il lettore che ha visto Hiroshima, le camere a gas di Auschwitz, i campi di concentramento, che è stato testimone della guerra, vedrà in ogni finzione un’offesa» scrive a Solženicyn nel 1966. Si tratta piuttosto, aggiunge, di oltrepassare i consueti limiti della letteratura, e di saper creare «prose percepite come documenti».

Torna in mente un’idea contemporanea di 'non fiction novel' e la passione del Roberto Saviano autore di Gomorra per i Racconti della Kolyma, libro al centro di più d’uno dei monologhi televisivi dello scrittore italiano. E viene in mente una concezione poetica anziché romanzesca del racconto della realtà, dove poesia corrisponde a impegno, a visione. Quella visione che Šalamov a più riprese difende e argomenta nell’altra corrispondenza che occupa il volume di lettere ora uscito in Francia: l’epistolario intercorso con la vedova di Mandel’štam. Šalamov ha grande stima di Nadežda Mandel’štam, per il libro da lei dedicato al marito e alla terribile vicenda della sua prigionia e successiva morte (in Italia uscì da Garzanti nel 1972 il bellissimo Le mie memorie). La scrittura di Nadežda e il lutto che li ha colpiti entrambi, l’amico e la moglie, li avvicina, li rende intimi. Così è a Nadežda Mandel’štam che Šalamov più confida il proprio mondo morale. Un mondo fatto di norme umane e letterarie insieme. Quella responsabilità del poeta ai suoi occhi nitida e ininterrotta, 'eccezionale' per dirittura morale. Per riuscire a essere giudici (e testimoni) rigorosi del proprio tempo, senza cedere all’illusione della finzione romanzesca, è a quella coerenza estrema peculiare dei veri poeti che occorre rifarsi. A quella solamente attingere.

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